Lunedì, 29 Aprile 2024

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Disuguaglianze: perché e come combatterle

Disuguaglianze

 

Disuguaglianze” è l'ultimo libro di Maurizio Franzini e Mario Pianta, edito da Laterza e appena arrivato nelle librerie. Il titolo già dice molto sulla chiave di lettura proposta dai due autori (docenti universitari di economia, il primo direttore del centro di ricerca Enzo Tarantelli, il secondo tra i promotori di Sbilanciamoci), che partendo dalle grandi trasformazioni economiche, politiche e sociali dell’Italia dell’ultimo decennio, affrontano la grande crisi iniziata nel 2008 per sottolineare la decrescita (per nulla felice) del sistema economico e sociale italiano, sottolineandone tutte le fragilità. Le conclusioni sono una ricetta rigenerativa fondata sull'equità, che affonda le sue radici nella tradizione keynesiana – aggiornata con le categorie della sostenibilità sociale e ambientale – di cui ci sembra utile anticipare qui alcuni passaggi.

“L’arretramento della politica è stato un fattore di importanza decisiva per il verificarsi del forte aumento della disuguaglianza che abbiamo registrato di recente. In questo paragrafo ci concentriamo su tre tipi di interventi che potrebbero ridurre drasticamente la disuguaglianza che si forma nei mercati e che ricadono nella sfera della tassazione e della spesa pubblica. Nel caso della tassazione, un argomento tipico per sostenere la riduzione delle aliquote fiscali è che la concorrenza fiscale internazionale penalizzerebbe i paesi con più alta imposizione fiscale; inoltre, la presenza di ‘paradisi’ fiscali consentirebbe una massiccia elusione delle maggiori imposte. E’ importante che si dedichi un grande impegno per favorire l’armonizzazione fiscale - in particolare in seno all'Unione europea - e per evitare fughe verso i ‘paradisi’ fiscali. Ma ciò non vuol dire che non vi siano ampi spazi per misure fiscali nazionali in grado di ridurre la disuguaglianza.

 

La tassazione nazionale e internazionale della ricchezza

Una tassa globale progressiva sul capitale è la principale proposta politica di Thomas Piketty (2013, capitolo 15); secondo l’esempio che egli fornisce, le aliquote di una tale imposta potrebbero essere strutturate così: 0% sui patrimoni inferiori a 1 milione di euro; 1% per quelli compresi tra 1 e 5 milioni di euro; 2% per patrimoni superiori a 5 milioni di euro. Applicando queste aliquote fiscali in Europa, i ricavi stimati sarebbero pari a circa il 2% del Pil europeo.

E ' importante che tutte le attività siano incluse - quelle immobiliari, quelle finanziarie e il valore delle imprese – al netto degli eventuali debiti. L’inclusione di tutte le forme di ricchezza differenzia significativamente l’imposta suggerite da Piketty dalle imposte sul patrimonio già esistenti in vari paesi perché queste ultime, in genere, non colpiscono le attività finanziarie e non tengono conto dei debiti. Inoltre, l’imposta dovrebbe essere definita in modo da evitare uno dei principali punti deboli delle imposte che oggi colpiscono la ricchezza, in particolare quella immobiliare: il gran numero di esenzioni e le regole arbitrarie spesso adottate per determinare il valore degli immobili, che non soltanto contrastano con elementari principi di equità e di parità di trattamento, ma riducono anche le entrate nelle casse dello stato.

Un aspetto cruciale del disegno dell’imposta riguarda la possibilità che - escludendo i casi in cui la ricchezza è molto elevata – essa sia pagata con il reddito derivante dal rendimento della ricchezza. Se così non fosse il proprietario che non disponesse di redditi di importo adeguato, sarebbe costretto a liquidare i suoi averi. Tutto ciò sarebbe ingiusto (perché penalizzerebbe soprattutto i proprietari di piccoli patrimoni) e potrebbe generare una reazione contro l’imposta da parte dei non troppo ricchi. Questo punto è stato sollevato da Yanis Varoufakis (2014) nella sua valutazione critica del libro di Piketty.

Piketty ritiene giustamente che un’imposta sulla ricchezza sia necessaria, insieme con un’imposta sul reddito e sull’eredità, per contrastare quella che egli considera la ‘forza principale della

divergenza’, vale a dire un tasso di rendimento della ricchezza superiore al tasso di crescita del reddito, e per frenare la crescente disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza.

La necessità di un'imposta sul patrimonio, e non soltanto di un sistema di tassazione del reddito maggiormente progressivo, è determinata dal fatto che le persone molto ricche non dichiarano mai un reddito corrispondente a un tasso ragionevole di rendimento della loro ricchezza. Ad esempio, coloro che possiedono una fortuna di 10 miliardi di euro di solito dichiarano un reddito molto inferiore a 10 milioni di euro, che corrisponde a un tasso di rendimento bassissimo, pari allo 0,1%.

La causa non è necessariamente l’evasione fiscale; potrebbe infatti trattarsi del fatto che è pratica comune non distribuire l'intero rendimento del capitale e farlo affluire in gran parte in un soggetto giuridico creato proprio per gestire tali fortune (Piketty 2013, p.854). Di conseguenza, "il reddito non è un concetto ben definito per gli individui molto ricchi, e solo una tassa diretta sul capitale può essere correttamente commisurata alla capacità contributiva dei ricchi" (ibid., p.852); in queste condizioni anche aliquote estremamente elevate sui redditi dichiarati produrrebbero entrate che non rappresentano una quota adeguata del reddito effettivo.

L’altra caratteristica di questa imposta è che dovrebbe essere applicata su scala globale, e ciò può apparire abbastanza ovvio considerando il grado di integrazione economica e finanziaria oggi prevalente. Secondo Piketty, l'alternativa a un’imposta globale sarebbe il protezionismo, che ha molti difetti tra i quali l’indebolimento delle forze della concorrenza.

Piketty riconosce che la soluzione da lui proposta richiede uno stretto coordinamento a livello internazionale, che è molto difficile da realizzare nelle condizioni attuali; tenendo conto di ciò, egli suggerisce che si potrebbe iniziare introducendo l’imposta sui patrimoni nell’Unione europea. Infine, Piketty sottolinea un punto importante: "una tassa è sempre più di una tassa: è anche un modo per definire norme e categorie e per collocare l’attività economica all’interno di un quadro giuridico" (ibid., p.843). In questa prospettiva un ulteriore vantaggio collegato all'imposta è che tutti dovrebbero rivelare le proprie ricchezze con conseguenti benefici per la trasparenza finanziaria a livello internazionale.

Le argomentazioni di Piketty a sostegno di un’imposta sulla ricchezza globale sono molto forti e questo strumento dovrebbe certamente rientrare nell'agenda politica di chi intende contrastare la disuguaglianza. Tuttavia, è necessario attivare anche politiche a livello nazionale senza attendere che a livello europeo o mondiale emergano le condizioni appropriate per adottare misure come l’imposta globale. I singoli paesi, soprattutto in Europa, dovrebbero iniziare a introdurre un'imposta nazionale sulla ricchezza, simile a quella invocata da Piketty a livello internazionale, è ciò potrebbe avvenire nel contesto di una riforma fiscale che riduca altri tipi di tassazione, con l'obiettivo generale di tenere stabile la pressione fiscale complessiva. Se alcuni paesi facessero i primi passi in questa direzione, in Europa potrebbe crescere l’attenzione per un’imposta sulla ricchezza e per l’armonizzazione fiscale a livello continentale.

 

Una maggiore progressività della tassazione del reddito delle persone

Il modo più ovvio e semplice per ridurre le disuguaglianze è forse quello che consiste nell’accrescere la progressività delle aliquote delle imposte sui redditi, che è stata drasticamente ridotta dagli interventi attuati nel corso degli ultimi tre decenni. Oggi sembra necessario intervenire sulla curva delle aliquote allo scopo di renderla più ripida, riducendo le più basse e aumentando le più alte. L’aliquota marginale per i redditi più elevati potrebbe essere portata al 65%, come ha proposto Atkinson (2015) che argomenta in modo dettagliato e convincente a favore di una maggior progressività. Altri hanno proposto aliquote ancora più elevate anche ricordando che l'aliquota massima nel Regno Unito, prima del governo Thatcher, nel 1979, era dell’ 83%; e negli Stati Uniti era del 91% fino al 1963, e del 70% fino al 1980. E’ inoltre importante rivedere il complesso sistema di agevolazioni e deduzioni che favoriscono i redditi più alti.

Questa politica non dovrebbe essere controversa perché vi è una chiara evidenza che le riduzioni fiscali per i ricchi hanno avuto effetti negativi sulla disuguaglianza e, d’altro canto, non hanno sostenuto gli investimenti e la crescita. Con un semplice decreto il governo può cambiare le aliquote

e non vi è alcuna necessità di modificare i metodi di riscossione delle imposte o di creare nuove istituzioni. L'importanza di una simile mossa nel contesto di una strategia politica a favore della giustizia sociale e della riduzione delle disuguaglianze sarebbe di immediata evidenza e potrebbe influenzare il più generale dibattito pubblico. Anche in questo caso, i cambiamenti fiscali potrebbero essere introdotti tenendo stabile la pressione fiscale totale, ad esempio ricalibrando opportunamente, in senso opposto, le aliquote sui redditi più alti e quelle sui redditi più bassi.

Il reddito minimo

Nei primi decenni del dopoguerra importanti politiche redistributive sono state introdotte nei paesi più avanzati come parte del progetto di ampliamento dello stato sociale. Tali politiche comprendevano le pensioni pubbliche, i sussidi di disoccupazione, le misure di sostegno al reddito, i programmi contro la povertà e la fornitura di un ampio insieme di servizi pubblici. Queste diverse misure si sono tradotte in benefici per la società nel suo complesso - e in particolare per coloro che si collocavano nella parte bassa della distribuzione dei redditi - e hanno fortemente contribuito al processo di riduzione delle disuguaglianze che si è sviluppato tra il 1950 e il 1980.

Negli ultimi decenni, tuttavia, la spesa sociale è stata, in generale, ridimensionata come quota del bilancio pubblico e una serie di cambiamenti hanno ridotto l’efficacia redistributiva delle politiche. Il risultato è la caduta del reddito disponibile delle famiglie che occupano le ultime posizioni nella scala dei redditi, l'aumento dei working poor, una maggior disuguaglianza anche a causa della debolissima dinamica dei redditi più bassi. Inoltre, i cambiamenti intervenuti nel mercato del lavoro, il diffondersi dei rapporti di lavoro atipici, la precarizzazione delle prospettive di lavoro e di vita hanno introdotto nuovi fattori di incertezza, di rischio e di povertà che devono essere affrontati con politiche appropriate.

Il modo più efficace per rispondere a queste sfide è l'introduzione di un reddito minimo universale, che garantisca un livello di vita dignitoso a tutti i cittadini, come parte integrante dei loro diritti civili e sociali. In questo modo si potrebbe migliorare la situazione di chi sta molto in basso nella distribuzione dei redditi, alleviando la povertà e riducendo le disuguaglianze. Inoltre, con questa misura verrebbe meno quella discriminazione che consiste nel far dipendere l’accesso a varie forme di sostegno del reddito dal tipo di contratto di lavoro di cui si è stati o si è titolari, oppure dalla storia lavorativa.

Da tempo si discute di come dovrebbe essere disegnato un reddito di base incondizionato e universale e, soprattutto, se le politiche debbano assicurare l'occupazione o garantire il reddito,

scelte che hanno conseguenze rilevanti sull’etica del lavoro, sulla cittadinanza sociale e così via. Entrambe le proposte hanno i loro meriti e una politica ben congegnata potrebbe combinare la creazione di posti di lavoro pubblici con l’assicurazione di un reddito minimo. In realtà, si potrebbe cercare di combinare la protezione dell'occupazione con il reddito garantito e con il salario minimo (di cui si è detto in precedenza) all’interno di una strategia complessiva diretta a contrastare il fenomeno dei working poor e a ridurre la povertà e le disuguaglianze.

Considerando le attuali tendenze dei mercati del lavoro, l'introduzione di un reddito minimo, finanziato con la fiscalità generale sarebbe un passo importante in avanti verso la semplificazione dei sistemi nazionali di welfare. In effetti, ogni paese ha sviluppato uno specifico sistema di welfare per affrontare questi problemi e oggi in Europa le diversità sono numerose e significative. La

necessità di una misura di questa natura a livello di Unione europea è ampiamente riconosciuta, come risulta anche dal recente Rapporto dei "Friends of Europe" (2015) redatto da un gruppo di esperti che, peraltro, hanno punti di vista diversi sulle caratteristiche che dovrebbe avere l’Europa sociale. La proposta di finanziare un reddito minimo per i cittadini europei con risorse direttamente europee potrebbe contribuire notevolmente a ridurre le disuguaglianze nell’Unione europea nel suo insieme e a legittimare il processo di integrazione europea agli occhi dei suoi cittadini”.

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