TARANTO «Il governo deve assumersi le responsabilità, non c’è più tempo. Qui si rischia l’eutanasia. La fabbrica ormai è al collasso». È il grido d’allarme lanciato dal leader nazionale della Fiom Cgil Michele De Palma nel giorno del nuovo tavolo sull’ex Ilva a Palazzo Chigi. Confronto che arriva dopo l’iniziativa di mobilitazione del 20 ottobre scorso con sciopero in tutti i siti del gruppo e manifestazione nazionale a Roma, a cui hanno partecipato oltre mille lavoratori. L’appuntamento di oggi è fissato per le 10.30 nella biblioteca chigiana. Saranno presenti tutte sigle metalmeccaniche.
Segretario, cosa vi aspettate da questo incontro?
«Tra un confronto e l’altro continuano i rischi per i lavoratori vista la situazione disastrosa degli stabilimenti. L’altro ieri all’ex Ilva di Taranto un carro siluro carico di ghisa ha deragliato, ma potremmo parlare di altri eventi che accadono costantemente anche in altri stabilimenti. La prima questione è che l’incontro deve servire innanzitutto a chiarire cosa sta succedendo perché noi abbiamo partecipato a dei tavoli presso il Mimit precedentemente al tavolo alla presidenza del Consiglio in cui la strada sembrava il passaggio in maggioranza del socio pubblico. O meglio, non sembrava: c’erano atti portati in Parlamento dal ministro Urso. Doveva essere la strada scelta del governo. Poi siamo andati alla presidenza del Consiglio e ci è stato detto che dell’affidamento dell’incarico al ministro Fitto per negoziare con Mittal la permanenza del privato in questo momento presente. L’unica cosa che, simultaneamente, stiamo provando a dire, è che innanzitutto non si può fare una trattativa al coperto e senza coinvolgere i lavoratori e le rappresentanze sindacali».
Perché avete chiesto un intervento al presidente della Repubblica?
«Abbiamo scritto a Mattarella come uomo di garanzia del rapporto tra lo Stato, i lavoratori e i cittadini perché, in questo momento, quello che vediamo è che non c’è un confronto, una trattativa vera tra le parti che sono in gioco: innanzitutto i lavoratori, poi le città che ospitano gli stabilimenti. Il primo punto fondamentale è che loro ci devono dire se c’è un memorandum e qual è l’intenzione del governo. Poi fare chiarezza rispetto agli stanziamenti che devono essere fatti sia dal pubblico che dal privato».
I contenuti del Memorandum dell’11 settembre scorso non sono stati resi noti ufficialmente, ma sembra che il governo voglia affidare il 100 per cento delle quote al socio privato, mentre tutti i sindacati spingono per il passaggio in maggioranza dello Stato. Che considerazioni vi sentire di fare?
«Continuiamo a ritenere ArcelorMittal inaffidabile. Faccio un esempio: continuereste ad affittare un immobile a un tizio che non paga l’affitto e devasta l’appartamento?
La produzione è a 3 milioni di tonnellate ma se ne potrebbero produrre molte di più. Siccome non si fanno le manutenzioni, in alcune circostanze le emissioni sono al di sopra di quelle attese per la produzione attuale. Ed ancora, la cassa integrazione non è stata legata a problemi di mercato, la cassa integrazione è stata utilizzata come una leva finanziaria che si è scaricata completamente sulla vita dei lavoratori. Qualche giorno fa sono stato a Francoforte al congresso del più grande sindacato metalmeccanico tedesco e in quell’assise congressuale il cancelliere Scholz ha aperto un dialogo sul sindacato sul tema del futuro della siderurgia in Germania. Partivano dal presupposto che bisognava ragionare dei costi dell’energia, della transizione, dell’occupazione, del salario, dell’orario di lavoro. In Italia invece non si apre la discussione sul fatto se vogliamo essere ancora un Paese in cui la siderurgia è un punto fondamentale dell’industria metalmeccanica. Io ho la sensazione invece che si stia facendo il gioco del cerino per lavorare a una dismissione. La domanda è: perché si sceglie scientemente la strada della dismissione al posto invece della strada del rilancio dell’industria? Quali sono gli interessi? È del tutto evidente che non sono gli interessi dei cittadini, non è l’interesse dei lavoratori, non è l’interesse del Paese».
Paventate quindi che il disegno sia la chiusura?
«Io non è che pavento, mi attengo ai fatti. In Italia siamo costretti a fare scioperi, a fare manifestazioni, fino a quando tra l’altro il livello di esasperazione non produrrà uno scontro ben più alto di quello che c’è stato fino ad oggi. In tutto questo vengono impiegati soldi pubblici, senza una interlocuzione con l’azienda che anzi, la cosa che fa costantemente, è provocare i lavoratori e le loro rappresentanze. Si sta facendo leva su un senso di responsabilità dei lavoratori. Noi vogliamo semplicemente negoziare una soluzione per Acciaierie d’Italia che riguarda ovviamente anche i lavoratori in amministrazione straordinaria perché ricordo che, nell’accordo del settembre 2018, noi non dovevamo fare cassa per quelli che erano nel perimetro aziendale. Noi la cassa non l’avremmo fatta per l’andamento del mercato dell’acciaio, la cassa è stata fatta come una leva di riduzione dei costi perché non ci sono neanche i soldi per poter alimentare il processo normale di produzione di acciaio».
Qual è la posizione del sindacato rispetto a tutto quello che sta avvenendo?
«Noi non siamo né contro l’azienda né contro il governo, noi siamo per trovare una soluzione ma ad oggi quello che stiamo constatando è che questa soluzione non c’è. Le risorse private dovevano servire per intervenire su Afo5: che fine hanno fatto? A Genova c’è il principale carro ponte che non funziona, chi interviene? C’erano le risorse pubbliche che servivano per il Dri, c’erano le risorse del Pnrr, oggi da quali risorse si attinge? Se c’è una strategicità dell’industria nel nostro Paese, come si esce dalla crisi in cui ci stiamo imbattendo come sistema-Paese nei prossimi anni senza la siderurgia? Lo Stato deve decidere con chi sta. Se sta con la salvaguardia dei diritti dei lavoratori oppure se sta da un’altra parte. È questa la risposta che noi chiediamo al tavolo e vogliamo vedere le carte. Si fanno gli accordi parasociali e nessuno ne sa niente, si fanno i memorandum e nessuno ne sa niente. Qual è la differenza tra i governi che si sono alternati? Tutti dicono di lavorare per il bene del Paese e dei lavoratori, ma lo fanno senza un elemento di trasparenza sul negoziato. Gli unici trasparenti siamo noi».
Il no a Mittal è categorico?
«Non c’è uno scontro ideologico, c’è uno scontro molto pratico. Chi mette i soldi? Il privato li mette i soldi? Per voi è normale impiegare le risorse pubbliche senza svolgere un ruolo della garanzia dello Stato dentro gli orientamenti industriali, occupazionali dell’azienda? Non esiste in Europa una cosa del genere. Lo Stato qui diventa il bancomat delle scelte aziendali senza partecipare alle scelte aziendali. È normale che con i numeri che ci sono l’amministratore delegato dica che quella degli ultimi 4 anni è la migliore storia dello stabilimento? È una costante provocazione. Dall’altro lato il presidente annuncia a più riprese le dimissioni, Invitalia manda una lettera in cui dice che non è chiaro dove stiamo andando. È un processo di eutanasia dell’industria siderurgica. Ma devono sapere che si assumono la responsabilità non soltanto verso quei lavoratori ma in generale verso l’industria del nostro Paese. La multinazionale tiene sotto scacco, sotto scopa, un intero Paese perché non concretizza mai il suo impegno. Per noi è inaccettabile, è una questione di dignità. Noi siamo arrivati a scrivere al presidente della Repubblica perché è il garante della nostra Costituzione. La politica in questo momento non ha consapevolezza della partita che si sta giocando sulla siderurgia».