Sabato, 20 Aprile 2024

Cronaca di 35 giorni di lotta operaia

Agli inizi del 1980 la Fiat sembra essere un’azienda in buone condizioni: i conti migliorano, i cattivi in odore di terrorismo sono stati allontanati1, l'assenteismo in fabbrica crolla a livelli fisiologici, la produttività risale e le assunzioni riprendono a pieno ritmo. In tale clima la Flm sta preparando la piattaforma per il rinnovo contrattuale dell'autunno. Tra marzo ed aprile vengono rinnovati i Consigli di fabbrica degli stabilimenti Fiat, il cosiddetto Consiglione: la partecipazione sarà molto alta (attorno all'85%) e verranno nominati 1.345 delegati operai e 39 impiegati, con oltre il 50% degli eletti al loro primo mandato.2 Nelle stesse settimane la Fiat inizia però improvvisamente a parlare di “crisi del settore auto”, sostenuta in particolar modo da la Stampa, l'organo d'informazione torinese, di proprietà della famiglia Agnelli.

L'8 maggio 1980, due giorni dopo l'insediamento di Vittorio Merloni alla guida di Confindustria, la FIAT, “in crisi”, propone la cassa integrazione per 78.000 operai per 8 giorni, tra giugno e luglio, per smaltire le scorte ritenute eccessive.3 La prima mossa di un certo peso, da parte dell'azienda, arriva però il 21 luglio, con una intervista di Umberto Agnelli a la Repubblica: il vicepresidente ed amministratore delegato del gruppo, rispondendo ad una domanda del giornalista Giuseppe Turani in merito a possibili licenziamenti, dichiara che «la parola è brutta, ma è appunto ciò di cui le aziende hanno bisogno. La cassa integrazione non basta, perché serve solo a ridurre la produzione, non a ridurre i costi e noi abbiamo bisogno di tornare ad essere competitivi».4 L'intervista viene letta come una boutade estiva sia dal Pci che dalle confederazioni sindacali (solo la Flm emetterà un duro comunicato di risposta), soprattutto perché, a distanza di pochi giorni, lo stesso Umberto Agnelli si dimette dalla carica di co-amministratore delegato della Fiat, lasciando al timone un solitario Cesare Romiti.

L'8 settembre 1980, presso l'Unione industriale di Torino, viene avviato il tavolo delle trattative: l'azienda conferma in toto le anticipazioni dei giorni precedenti, annunciando ventiquattromila lavoratori in cassa integrazione fino alla fine del 1981, di cui quattordicimila di loro fuori per sempre.5 In risposta il sindacato propone: cassa integrazione a rotazione per tutti i lavoratori Fiat, blocco delle assunzioni e prepensionamenti che possano, entro la fine del 1981, diminuire di diecimila unità il numero degli addetti. La rottura è inevitabile e totale.6

Iniziano i “35 giorni”: a Rivalta la fabbrica è bloccata e i lavoratori escono in corteo inneggiando a Danziaca, a Mirafiori il reparto carrozzeria entra in sciopero e vengono bloccati i cancelli di ingresso allo stabilimento.

La Flm emette il primo comunicato di attacco nei confronti delle posizioni assunte dall'azienda, definendo inaccettabile la proposta di mobilità esterna, chiamando in causa il governo e promettendo una lotta di lunga durata. L'11 settembre vengono ufficialmente comunicati i 14.469 licenziamenti: la Flm proclama immediatamente lo sciopero di 3 ore in tutto il gruppo, con manifestazione davanti alla porta 5 di Mirafiori. I lavoratori del reparto presse escono in corteo con un grande ritratto di Marx (che diverrà il simbolo della protesta); bloccate anche il Lingotto, Rivalta e la Lancia di Chivasso.8

La Flm sembra però subire le posizioni delle confederazioni, che non vogliono pregiudizialmente rifiutare la proposta di mobilità esterna e lasciare così spazio alla propaganda antisindacale della Fiat. In particolare Cgil, Cisl e Uil sembrano essere preoccupate solamente degli aspetti generali della vicenda, convinte che quest'ultima «non potrà risolversi con l'iniziativa dal basso, che decisivi saranno gli atteggiamenti di governo, partiti e giornalisti».9

In questa fase - mentre i sindacati si confrontano, il governo è alla ricerca di una mediazione possibile e la Fiat sembra essere isolata e in attesa che le mobilitazioni si sgonfino – i veri protagonisti sono gli operai. Il 25 settembre si tiene lo sciopero nazionale dei metalmeccanici con due imponenti manifestazioni a Napoli e Torino: in Piemonte lo sciopero riguarda tutte le categorie e in piazza san Carlo si radunano ben centomila persone in sostegno della lotta alla Fiat. Contemporaneamente l'azienda non rimane a guardare e spedisce a casa di ogni singolo lavoratore del gruppo una lettera nella quale la Fiat si dichiara disponibile a trasformare i licenziamenti in mobilità esterna, se solo i sindacati si dicessero disponibili ad accettare tale proposta. Il 26 settembre arriva, davanti ai cancelli di Mirafiori, Enrico Berlinguer per portare la solidarietà del Partito Comunista agli operai in lotta e confermare l'appoggio all'eventuale occupazione dello stabilimento.

Il giorno seguente però, a Roma, il governo Cossiga è messo in minoranza sulla manovra economica ed è costretto alle dimissioni: si tratta di un duro colpo per chi, come i sindacati, ha sempre sperato in un intervento politico per risolvere la situazione. La Fiat invece accoglie la caduta di Cossiga con «un sorriso nascosto»10perché oltre ad essersi finalmente sbarazzata di un governo «che si era dimostrato ostile», può anche compiere una mossa per uscire dall'isolamento politico. Con un comunicato, l'azienda torinese comunica infatti che, al fine di disinnescare ulteriori motivi di tensione sociale dopo la caduta del governo, sospende fino a fine anno i licenziamenti, trasformando quest'ultimi in «cassa integrazione speciale per 24.000 lavoratori, blocco del turn-over e prepensionamenti».11 Pci e confederazioni sindacali (che annullano momentaneamente lo sciopero generale nazionale) tirano un respiro di sollievo mentre la Flm si dimostra molto più cauta, sostenendo che «se il ritiro dei licenziamenti è un fatto positivo, non implica che la Fiat abbia rinunciato al proprio disegno».12 Ai metalmeccanici sembra insomma presto per cantare vittoria: infatti il giorno 30 l'azienda comunica, tramite lettera, a più di ventitremila lavoratori la loro messa in mobilità dal 6 ottobre al 31 dicembre. Ritirati i licenziamenti, evidentemente non più gestibili sia sul piano politico che su quello dell'opinione pubblica, la Fiat vuole ora sfondare sul terreno della mobilità esterna senza dover contrattare nulla con i sindacati. Il Consiglione, subito riunito, grida ai licenziamenti mascherati e alle liste di proscrizione, attuando immediatamente il blocco dei cancelli e il presidio continuo degli stabilimenti, perché l'aver reso noti i nomi rappresenta una chiara operazione di divisione e come tale deve essere respinta. I lavoratori non smobiliteranno, essi sostengono, finché la Fiat non avrà ritirato le liste.13 Così Gabriele Polo spiega tale decisione:

Se non si va ad un blocco ad oltranza della produzione, chi resta in fabbrica deve scioperare e perdere salario per chi è fuori ma incassa i soldi della cassa integrazione. È un meccanismo diabolico, la Fiat lo sa. Un meccanismo che, alla fine, pagherà.14

Il 2 ottobre la Fiat, comprando diverse pagine di alcuni quotidiani nazionali, fa uscire un testo, comunicativamente molto incisivo, nel quale si tiene a precisare che «la Fiat ha sospeso i licenziamenti e ha chiesto la cassa integrazione che significa conservare il posto e ricevere il 90 percento della retribuzione».15 I sindacati, in risposta, scriveranno un altro testo, anche questo pubblicato dai maggiori quotidiani nazionali, nel quale si accusa l'azienda di voler cacciare miglia di lavoratori in maniera unilaterale, anziché «affrontare concretamente i problemi di risanamento produttivo».16 In quegli stessi giorni la Fiat, tramite un esposto alla magistratura, chiede ufficialmente la liberazione dei cancelli di Mirafiori.

Intanto iniziano, anche sotto diretta spinta della Fiat, ad organizzarsi i quadri ed i capi che vogliono rientrare negli stabilimenti e riprendere a lavorare: essi «si sentono rinascere, percepiscono che il mondo che conta sta dalla loro parte e chiede loro di fare qualcosa: è un'incredibile iniezione di vitalità, l'intuizione di rappresentare il nuovo che avanza».17 Il 10 ottobre è la volta dello sciopero generale nazionale, che blocca tutte le fabbriche italiane in solidarietà con gli operai della Fiat.

A manifestazione conclusa, presso la sede della Federazione provinciale del Pci torinese, si tiene una riunione fiume tra Sergio Garavini (segretario nazionale della Cgil e dirigente comunista), i segretari regionale e provinciale del partito, il responsabile fabbriche del Pci torinese Piero Fassino, i segretari della Cgil torinese e piemontese (Tino Pace e Fausto Bertinotti), il deputato comunsita Emilio Pugno, il responsabile per il settore auto della Flm Claudio Sabattini, il segretario della Fiom piemontese Cesare Damiano e il suo responsabile per i rapporti con la Fiat Marco Giatti. L'incontro dura sette ore: esclusi Sabattini, Pace e Bertinotti, tutti gli altri esponenti comunisti sono favorevoli all'accettazione della mobilità esterna, qualora la situazione volgesse al peggio. Pochi giorni più tardi, come ricordato dallo stesso Claudio Sabattini, lui e Bertinotti vengono ufficialmente invitati ad abbandonare le trattative con la Fiat dai vertici nazionali del Pci.18

Il 14 però tutto cambia ancora una volta, e questa volta definitivamente. A Torino va in scena la manifestazione nazionale dei capi e dei quadri intermedi della Fiat al Teatro Nuovo. Alle ore 10 alcune migliaia di persone sfilano nel centro della città all'insegna dello slogan «Flm non ci rappresenti – il lavoro si difende lavorando». Una delegazione viene ricevuta prima in Prefettura e successivamente in Comune.19 E' la “marcia dei quarantamila”: sono capi e quadri, provenienti da tutti gli stabilimenti del gruppo, che scendono in piazza per la prima volta chiedendo di poter rientrare in fabbrica e di riprendere a lavorare. Il loro primo nemico è la Flm che impedisce il diritto al lavoro, essi dicono.

La Fiat immediatamente sospende le trattative a Roma e, per bocca di Cesare Romiti, rilancia: «le cose che ci siamo detti fino a questo momento non valgono più perché quello che è avvenuto stamattina a Torino modifica tutto il quadro della situazione».20 Anche la grande stampa non ha dubbi e definisce come rivoluzionario quello che è accaduto, descrivendo una città in rivolta contro il sindacato.21

In tale clima, nel corso del pomeriggio del 14, i leader confederali e quelli della Flm si ritrovano per fare il punto presso la sede della Uil a Roma. Lama, Carniti e Benvenuto non hanno più dubbi, è giunto il momento di firmare, accettando la mobilità esterna e rinunciando alla cassa integrazione a zero ore. Quello che conta ora è salvare il sindacato da un’ondata di contestazione inaspettata quanto acuta, è per questo che l'accordo si deve firmare anche senza il consenso dei delegati torinesi e senza aver consultato il Consiglione. In nottata, presso la sede del Ministero del Lavoro, le delegazioni si ritrovano e i sindacati comunicano la resa incondizionata.

Il testo viene steso dagli stesi dirigenti della Fiat, i sindacalisti si limitano a sottoscrivere: ventitremila lavoratori in cassa integrazione a zero ore dal 6 ottobre 1980, dimissioni volontarie, impegno della Fiat a riassumere coloro che al 30 giugno 1983 si trovino in cassa integrazione. Sono le cinque del mattino del 15 ottobre 1980, i 35 giorni sono finiti.22

Il 16 ottobre è la volta delle assemblee in fabbrica: Lama, Carniti e Benvenuto affrontano direttamente gli operai del primo turno, parlando dell'inevitabilità dell'accordo, dando rassicurazioni sul rientro in fabbrica per tutti e comunicando che non si tratta di una sconfitta perché i licenziamenti sono stati ritirati. Alla fine si vota e un mare di mani (fatta eccezione per i capi e pochi altri) è contrario all'accordo23, ma dal palco non si hanno dubbi: «approvato a larga maggioranza». I tre segretari confederali sono letteralmente costretti alla fuga.24

E' la fine del sindacato dei Consigli, è la fine della stagione del potere operaio in fabbrica, inaugurata nell'autunno del '69, è soprattutto una pesante sconfitta25.

1 Il 9 ottobre del 1979 la Direzione Fiat invia a casa di 61 suoi dipendenti delle lettere tutte uguali, nelle quali si afferma che, in forma unilaterale, è «divenuta impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro» perché accusati di essere dei violenti e in odore di terrorismo. Poco conta se, in seguito, i sessantuno operai saranno reintegrati in fabbrica dalla magistratura e solo quattro di loro risulteranno avere avuto rapporti con gruppi clandestini. Il messaggio è comunque passato: non c'è più posto per la conflittualità in fabbrica. In merito si veda: Giorgio Ghezzi, Processo al sindacato: una svolta nelle relazioni industriali. I 61 licenziamenti Fiat, De Donato, Bari 1981.

2 Polo Gabriele, Sabattini Claudio, Restaurazione italiana: FIAT, la sconfitta operaia dell’autunno 1980: all’origine della controrivoluzione liberista, Manifestolibri, Roma 2000 p. 41.

3 Perotti Pietro, Revelli Marco, Fiat autunno 80 per non dimenticare. Immagini e documenti di una lotta operaia, Centro di ricerca e iniziativa comunista, Torino 1986, p. 14.

4 La Repubblica, 21/06/80.

5 Gli operai che la Fiat intende licenziare sono tutti impiegati in Piemonte, 12.934 negli stabilimenti dell'auto, 1.396 alla Teksid e 166 alla Lancia.

6 Restaurazione italiana, p. 48.

7 Fiat autunno 80, p. 20.

8 Ivi, p. 22.

9 Restaurazione italiana, p. 52.

10 Restaurazione italiana, p. 74.

11 Ibidem.

12 Ivi, p. 75.

13 Fiat autunno 80, p. 56.

14 Restaurazione italiana, p. 76.

15 Ivi, p. 79

16 Ibidem.

17 Restaurazione italiana, p. 86.

18 Ivi, p. 90.

19 Ivi, p. 94.

20 Ivi, p. 92.

21 Le persone realmente presenti in piazza, secondo fonti giornalistiche, sono in realtà circa 15.000, ma questo dato non impedisce comunque a La Stampa di parlare di 30.000 manifestanti e a la Repubblica addirittura di 40.000. Il numero che poi sarebbe passato alla storia; in Fiat autunno 80, p. 94.

22 Restaurazione italiana, p. 94.

23 «Nel pomeriggio le assemblee del secondo turno esprimono un incontestabile rifiuto: alle Carrozzerie di Mirafiori 80% no, 20% sì; alle Meccaniche 65% no, 35% sì; alle Presse 95% no, 5% sì. A Rivalta l'ipotesi di accordo viene rifiutata senza neppure passare ai voti perché il Consiglio di fabbrica la ritiene “assolutamente non corrispondente al mandato”. Al Lingotto i no sono il 95%. Anche alla Lancia di Chivasso il rifiuto è totale. Ma le fonti di informazione e le direzioni sindacali avevano già annunciato, fin dalle ore 13, l'approvazione dell'accordo!»; in Fiat autunno 80, p. 120.

24 Restaurazione italiana, p. 36.

25 In merito si veda: Pio Galli, Giancarlo Pertegato, Fiat 1980. Sindrome della sconfitta, Ediesse, Roma 1994.

La Fiom è il sindacato delle lavoratrici e lavoratori metalmeccanici della Cgil

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