«Nel Sud da decenni manca una politica industriale»

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Numerose ed importanti eccellenze, ma anche tanti, troppi punti di cnsi, tante, troppe chiusure che negli ultimi anni hanno impoverito fino a svuotarlo il settore industriale nel Mezzogiorno. Oggi si contano solo 131 mila attività manifatturiere attive, il 7,7% del totale, all'ultimo posto delle imprese attive nel Sud. Numeri spaventosi, che lasciano poco spazio a prospettive più incoraggianti. Ne parliamo con la leader nazionale della Fiom Cgil, Francesca Re David.

Quanto siamo messi male?

«Purtroppo questi risultati sono il frutto delle scelte dei governi realizzate negli ultimi decenni e della mancanza di politiche industriali, in particolare nel sud del Paese. L'industria nel Meridione si è retta ed è cresciuta sui due pilastri delle partecipate e della Cassa per il Mezzogiorno. Il progressivo disimpegno della Cassa del Mezzogiorno e delle partecipazioni statali ha lasciato il posto alla graduale desertificazione industriale senza che ci fosse un'alternativa credibile in termini produttivi da parte di capitale ed industria privata. Nonostante ciò si tratta di un'area in cui esistono grandi presenze come Leonardo, Avio, Fea, Hitachi, che rappresentano molto più di una speranza per il rilancio del territorio».

Che tra l'altro, stando ai dati Istat, ha avuto una crescita di 15 mila occupati in un anno.

«Questo è un dato da guardare con molta attenzione. Intanto perché la tendenza è molto più forte al Nord, dove si registrano 190 mila addetti in più. E poi perché parliamo nella stragrande maggioranza dei casi di contratti a tempo determinato. Conseguenza delle difficoltà delle imprese di origine italiane di stare sul mercato e della scelta delle multinazionali su quali realtà puntare in modo deciso e quali marginalizzare, con un effetto precarizzazione a cascata che sta sotto gli occhi di tutti».

Il calo pauroso delle esportazioni nella meccanica, nel metallurgico e negli articoli farmaceutici, una volta comparti forti nel Sud, conferma che il futuro è nero.

«L'Italia è il secondo paese manifatturiero in Europa e il settimo al mondo, soprattutto per la componentistica. Questa posizione di privilegio sconta il calo della produzione nel vecchio continente, e la crisi dell'automobile che non è solo FCA ma anche i 250 nula addetti dell'indotto, soprattutto nel Sud. Siamo m una fase nella quale soldi non se ne vedono, la guerra commerciale continua mentre la transizione ecologica viene avanti con forza ma FCA e Bosch insistono a non mettere in campo, come più volte abbiamo sollecitato, investimenti ambiziosi per la riconversione. Di questo passo purtroppo non si va lontano».

Come ci dicono le vicende uva e Whirlpool, sempre più in fuga dal Mezzogiorno.

«Ne Mittal né Whirlpool sono in crisi. Sullo stabilimento di Taranto c'è un accordo che indica zero esuberi, un piano industriale e un piano ambientale. Noi rivendichiamo il rispetto di quell'intesa per l'ex nva, e se il Governo fa un passo indietro, il sindacato non intende muoversi da quanto si è deciso. Whirlpool, acquisendo Indesit, si è presa gli ammortizzatori ed il piano di ristrutturazione, ed ora cambia bandiera per decisione dei padroni, prendendo in giro lo stesso Governo. E' arrivato il tempo di alzare il livello dell'interlocuzione e parlare direttamente con l'America. Mise non basta più, ormai è diventato il Ministero delle crisi anziché dello sviluppo economico. Le multinazionali che vengono in Italia, a parare dal meridione, devono rispettarci, e noi siamo pronti a fare fino in fondo la nostra parte. Abbiamo la consapevolezza dell'importanza della presenza produttiva delle grandi imprese economiche straniere in Italia per la crescita e lo sviluppo dei nostri territori, ma questo non significa dare senza ricevere certezze di lavoro e stabilità occupazionale. Sia ben chiaro a tutti gli investitori».

Corriere del Mezzogiorno, 2 marzo 2020

 

 

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