Martedì, 19 Marzo 2024

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La battaglia del tempo

Le riduzioni dell’orario di lavoro sono in atto già da anni. Istituti come l’Istat (che rileva i dati sugli orari di lavoro nelle imprese con più di 500 addetti: sic!) e l’Inps dovrebbero offrire i dati disaggregati delle riduzioni in corso attraverso la diffusione dei contratti a part time volontari e soprattutto involontari, delle svariate forme del “lavoro per un po’” dei rapporti di lavoro precari, delle riduzioni d’orario con la cassa integrazione e i contratti di solidarietà. Sono riduzioni d’orario che comportano riduzione dei salari e, soprattutto, delle libertà nel lavoro e nella vita.

La maggioranza dei lavoratori sta già passando la vita a cercarsi un lavoro e a temere di perderlo una volta trovato, cancellando così molte aspettative e speranze. Crescono le possibilità di ricatto e le insicurezze sul proprio futuro. Il risultato è che ormai i lavoratori non pensano più di avere un destino comune. Svanisce la solidarietà di classe e, molte volte, anche la solidarietà umana.

Nella fase fordista la regolarità e la disciplina del lavoro caratterizzavano le relazioni industriali e anche la cultura del lavoro; le grandi economie di scala delle fabbriche e la crescente intensità del lavoro ottenuta attraverso la parcellizzazione delle prestazioni e dei movimenti garantivano una progressiva crescita della produttività del lavoro. Prodotto interno lordo e consumi crescevano. L’intensità del lavoro avrebbe dovuto essere misurata con criteri oggettivi, addirittura secondo sistemi di misura internazionali come l’Mtm, eppure per alcuni decenni, sino alle lotte operaie della fine degli anni ’60 del secolo scorso, regnava l’arbitrio dei capi. Ora, nell’epoca della produttività del lavoro e del prodotto interno lordo stagnanti e del ricorso alle delocalizzazioni su sfera mondiale, le relazioni di lavoro si fondano sempre più sull’adattabilità e sull’arbitrio e lo strumento principale è il potere di decidere dei tempi di lavoro e di vita. Pertinente la defiinizione data dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro: working anytime and anywhere, lavorare in ogni momento e in ogni luogo. Questo mutamento del lavoro osservato con la lente del lavoro come “posto” ha indotto a declinarlo al plurale, “i lavori”, mettendo in secondo piano i due cambiamenti più importanti tra loro variamente combinati: la crescente divisione del lavoro favorita dalle tecnologie e la occasionalità delle prestazioni. Si è affermato così non solo l’uso arbitrario del tempo ma anche quello dei saperi e delle competenze, l’educazione scolastica e la formazione servono alla adattabilità della persona e non importa se si usa un millesimo dei saperi di un essere umano. Norbert Wiener la definiva la «società fascista delle formiche».

L’arbitrio che caratterizzava l’intensità del lavoro esecutivo nella fase della crescita industriale ed economica si è trasferito sull’uso del tempo. Si è così esasperato, sino ad affermarlo come unico modello sociale possibile, quello che il capitalismo aveva introdotto: «convertire l’esistenza delle persone in un’unità temporale quantificata vendibile sul mercato». Il vecchio modello accompagnava la crescita, il nuovo, invece, la corsa verso il basso, che hanno chiamato competitività.

Ma il sindacato e le sparse membra di una sinistra continuano a usare le categorie del passato inseguendo una crescita che non c’è e sostenendo che bisogna creare posti di lavoro. Quando ormai da decenni l’occupazione si misura in tempo e non in posto. In effetti per l’Istat si è occupati quando l’intervistato risponde si alla domanda «ha lavorato un’ora o più nella settimana precedente?».

Il diritto all’orario di lavoro minimo, assieme a quello alla formazione permanente e alla protezione sociale universale dalla nascita alla vecchiaia fanno parte delle proposte per un modello sociale più equo a fronte delle grandi trasformazioni e contraddizioni del XXI secolo: la crisi ambientale e climatica, l’aumento della popolazione e l’introduzione e diffusione delle tecnologie digitali, sino a oggi fattori che hanno esasperato le diseguaglianze sociali nel contesto dell’economia di mercato. Per fare un esempio, un modello energetico fondato sulla de-carbonizzazione comporterà necessariamente la perdita ‒ e non è detto la riconversione professionale ‒ di molti milioni di lavoratori nei settori dell’estrazione, trasformazione e trasporto ma in alternativa è in campo la proposta della destra politica e culturale del mantenimento del modello attuale facendone pagare i prezzi alla parte di popolazione più povera. Abbiamo sotto gli occhi la condizione dei migranti africani ma preferiamo non vederla.

L’orario minimo garantito è la premessa per un’equa redistribuzione del lavoro nella settimana lavorativa e nella vita delle lavoratrici e dei lavoratori offrendo, tra l’altro, uno sbocco immediato ai limiti temporali del reddito che chiamiamo di cittadinanza.

Negli ultimi decenni la legislazione ordinaria ha progressivamente depotenziato la norma costituzionale che prevede la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Oggi il lavoro aumenta le diseguaglianze. Le nuove norme del lavoro sono state motivate e fondate sul principio che solo la flessibilità e la competitività avrebbero potuto creare “posti” di lavoro. Ma i dati sull’andamento dei “posti” misurati qualche volta dall’Istat in Ula (le unità di lavoro equivalenti a un posto dove si lavora 40 ore alla settimana a tempo indeterminato) evidenziano invece il loro progressivo declino sostituito dall’arbitrio sui “tempi”.

Bruno Trentin si interrogava se non fosse giunto il momento di riprogettare «nuove certezze che, in termini di qualità del lavoro, possono sostituire le certezze offerte dalla durata indeterminata del rapporto di lavoro» e proseguiva affermando che «la loro risoluzione diventa la condizione per la sopravvivenza di un contratto di lavoro che non regredisca verso un rapporto di tipo servile». Sono passati vent’anni e la deriva verso il lavoro servile non si è interrotta.

È ora di riprendere l’azione per dare attuazione al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione e le politiche attive dei tempi del lavoro sono uno strumento indispensabile per riaffermare l’uguaglianza e la libertà.

Usando il metodo del calcolo per l’efficacia delle proposte, le questioni dell’orario minimo garantito, della redistribuzione degli orari e delle politiche attive del tempo obbligano a conoscere e studiare quali sono gli strumenti in campo e per quali obiettivi, per confermarli quando necessario e per cambiarli quando è altrettanto necessario e doveroso. Per ognuno dei temi successivamente considerati è necessario uno studio e una riflessione per mettere a punto proposte concrete.

Cambiare gli incentivi pubblici a sostegno della creazione di posti di lavoro

Si tratta di censire le svariate possibilità di sostegno alle imprese allo scopo di creare occupazione per separare gli incentivi agli investimenti dagli sconti alle assunzioni o al costo del lavoro che potrebbero essere finalizzati alla riduzione e redistribuzione dei tempi del lavoro. Questi incentivi possono avere origine sia in politiche europee che nazionali. Gli esempi che si possono fare sono molti.

Correggere le politiche di sostegno al reddito

La risposta al problema crescente della povertà non può essere solo monetaria. L’integrazione al reddito è doverosa ma va considerata come parte dell’azione pubblica e di un nuovo contratto sociale che abbia come fine l’eliminazione di ogni forma di esclusione sociale. Non vengono qui considerate alcune questioni attinenti al welfare, sicuramente fondamentali, ma l’integrazione tra reddito al povero e orario minimo di lavoro può essere strumento fecondo per delle politiche attive del lavoro favorendo così un’equa redistribuzione dei tempi e una loro riduzione mirata.

Alcune riduzioni “mirate” dell’orario di lavoro

La prima è il sostegno all’occupazione. Oggi intervengono in alcuni settori, quindi non per tutti i lavoratori, strumenti come la cassa integrazione guadagni e i contratti di solidarietà, che sono finanziati come prestazione previdenziale sostenuta dal relativo contributo all’Inps da parte delle imprese per i loro lavoratori. Gli interventi di questi due strumenti di integrazione al reddito hanno delle scadenze temporali e sono ormai numerose le situazioni aziendali in cui si adotta l’introduzione della riduzione dell’orario di lavoro con la corrispondente riduzione delle retribuzioni, il cosiddetto part time involontario. Non so se gli stessi sindacati che quarant’anni fa si batterono per l’istituzione del diritto alla salute come diritto pubblico e universale proponendo di far confluire l’11% del salario destinato alle mutue per il sostegno finanziario del servizio sanitario nazionale sarebbero disponibili per un’operazione analoga a sostegno di un fondo nazionale per le riduzioni e redistribuzioni dell’orario di lavoro.

La seconda attiene a una maggiore autonomia dei lavoratori sul loro tempo di lavoro in funzione di un nuovo equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, soprattutto quando i confini tra queste due sfere della vita sociale si fanno ogni giorno più labili e confusi. Il recente accordo per il rinnovo contrattuale dei lavoratori metalmeccanici tedeschi apre alla possibilità dell’orario settimanale di 28 ore. L’utilizzo delle norme della legge 104 del 1992 potrebbero avere un effetto sinergico.

La terza è la destinazione di una parte dell’orario di lavoro alla formazione permanente. Resuscitando così l’istituto delle 150 ore e riconsiderando sia il fondo sociale europeo che, soprattutto, i fondi interprofessionali dell’Inps. Questa strada sta diventando indispensabile per garantire un uso e un controllo umano delle tecnologie che trattano le informazioni. E conoscere l’inglese farà bene per meglio conoscere il mondo e forse, magari, per un nuovo internazionalismo. Fino a oggi è una prerogativa di tutti i manager e degli addetti sindacali alle relazioni internazionali. La quarta è la riduzione d’orario con integrazione al reddito per i lavoratori esposti alla fatica del lavoro manuale oltre a un certo limite d’età. La proposta non è alternativa alla cosiddetta “quota 100” (62 anni di età e 38 di lavoro con contributi) che inevitabilmente escluderà la larga maggioranza delle lavoratrici dei settori privati e tanta parte dei lavoratori industriali, soprattutto operai o comunque lavoratori a bassa qualificazione. L’esito sarà un sistema pensionistico ancor più diseguale. Ma il fatto più grave è che tra i 45 e i 64 anni di età il 20-25% delle lavoratrici (che hanno speranze di vita più lunghe dei maschi ma speranze di vita in condizione di benessere assai più brevi) e dei lavoratori soffrirà di malattie croniche come l’artrosi o la sordità. E dopo i 64 anni il peggioramento sarà esponenziale. È del tutto evidente che per milioni di lavoratrici e di lavoratori dei settori della sanità e della assistenza, dell’igiene e della pulizia, dell’edilizia e della manifattura si sta presentando il rischio e il ricatto del giudizio di inidoneità al lavoro che in molti casi, già oggi, fa della persona un oggetto di scarto e di licenziamento.

Immagino che proposte di questo tipo incontreranno la critica dello scarso realismo. Già, in tempi moderni, una proposta è realistica solo se trova ascolto nella settimana per poi avere una qualche applicazione. Se gli antenati dei lavoratori o dei loro rappresentanti sindacali e politici avessero ragionato così i lavoratori non avrebbero conquistato la giornata di lavoro di otto ore (a novembre saranno 100 anni dalla prima norma internazionale) e nel secondo dopoguerra le leggi sui diritti dei lavoratori, il servizio sanitario nazionale o un sistema pubblico di previdenza.

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La Fiom è il sindacato delle lavoratrici e lavoratori metalmeccanici della Cgil

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