Re David: Protagonisti, non testimoni

Francesca Re David
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Da luglio scorso, con il passaggio di Maurizio Landini alla Segreteria della Cgil, Francesca Re David è la nuova Segretaria generale della Fiom. Con lei abbiamo parlato di questo nuovo incarico e delle sfide che attendono i metalmeccanici, del prossimo congresso della Cgil e anche dei temi “caldi” della scorsa estate: la questione migranti con il brutale sgombero di Roma e i dati sulla ripresa del Pil forniti dal Governo. Inevitabile poi un ragionamento sullo stato della democrazia sociale e politica del nostro paese, a partire dal ricordo di Stefano Rodotà.

 

Partiamo da quanto avvenuto nell’agosto scorso a Roma, con lo sgombero manu militari dei migranti – soprattutto rifugiati politici eritrei – da piazza Indipendenza. La Fiom ha subito preso parola per condannare quel tipo di gestione emergenziale e repressiva del tema migranti. Cosa pensi di quella vicenda?

 

La questione dell’accoglienza dei migranti sta diventando sempre più lo spartiacque tra chi immagina una società umana e una disumana, anche a sinistra. Quanto sta avvenendo è la rappresentazione più plastica della crisi della politica: aumentano le disuguaglianze e si semina odio e violenza contro gli ultimi, non avendo una risposta politica in senso etico. Una questione che viene trattata solo in termini di sicurezza pubblica, un dramma umano di dimensioni gigantesche da cui nessuno di noi è esente. Il tutto alimentato da un sacco di bugie e allarmismi. Perché nessuno dice che i migranti – indistintamente rifugiati politici o economici - arrivati nel nostro paese quest’anno sono meno dei giovani italiani che sono andati all’estero per studiare o lavorare, per scelta o per necessità? Questa ipocrisia alimenta delle grandi bugie collettive.

Credo che quanto è successo a Roma in piazza Indipendenza nelle scorse settimane sia scandaloso, mettendo gli uni contro gli altri, poveri contro poveri, crisi contro crisi. Roma non è più una “città aperta”, non ci sono politiche di accoglienza da anni così come non c’è una politica abitativa. Le politiche per il diritto all’abitare non c’entrano nulla con la necessità di una politica di accoglienza. Sono due cose assolutamente distinte ma necessarie al tempo stesso. Oltre al fatto che molti di questi giovani che vivono con le famiglie nelle case occupate, pagano le tasse perché lavorano in questo paese, vanno a scuola con i nostri figli, sono romani nati e cresciuti in Italia. Pensare di spostarli di qua o di là, come se fossero dei pacchi, in piena emergenza dimostra l’incapacità totale da parte della politica.

 

Il tema dell’accoglienza e le politiche d’integrazione passano anche dai luoghi di lavoro. Pensi che la Fiom debba mettere in campo delle iniziative specifiche in tal senso?

 

Penso che questo tema della rincorsa alle peggiori pulsioni, in una società in cui le insicurezze e la precarietà sono totali, ha fatto leva ovunque. Come Fiom abbiamo, a partire dal centro-nord Italia, una forte presenza di lavoratori migranti tra i nostri delegati, persone cioè che vengono votate nei posti di lavoro anche dagli italiani. Partendo allora da quello che già siamo, dobbiamo mettere in campo una grande campagna politica, un grande progetto formativo e informativo, perché anche dire migranti dà un’idea sbagliata e indistinta. Noi, in fabbrica, avremo più di una ventina di etnie e non possiamo solo limitarci a prendere posizione, dobbiamo fare qualcosa che inneschi un cambiamento anche culturale.

 

Un altro tema agostano riguarda i dati sulla crescita del Pil. In molti – dal Governo, alla maggioranza, agli opinionisti mainstream – hanno esultato, parlando di “crescita consistente e persistente per l’Italia”. C’è davvero di che esultare?

 

Ormai la distinzione tra informazione e propaganda è sempre più labile. Noi siamo, com’è ovvio, contenti di ogni miglioramento, però il Pil in Italia cresce in misura minima e siamo l’ultimo paese dell’Europa occidentale come crescita. Ciò significa che siamo dentro a un trend generale ma che siamo gli ultimi della classe. Abbiamo ancora una produzione che sta 20 punti sotto al 2007, quando è iniziata la crisi, mentre in Germania e Francia le cose sono andate in modo assolutamente diverso. Siamo però ancora il secondo paese più industrializzato d’Europa, il secondo paese manifatturiero. Quando parliamo di Pil parliamo d’industria, che copre il 56% della produzione e, soprattutto, d’industria metalmeccanica.

La totale assenza di politiche industriali si è ancora più accentuata negli ultimi anni. La verità è che il Governo, il Ministero dello Sviluppo Economico, la Presidenza del Consiglio accompagnano le scelte delle imprese ma non fanno sviluppo economico - come il nome stesso del ministero porterebbe a pensare – e considerano le crisi chiuse quando lo dicono le aziende e non quando i lavoratori interessati tornano a essere occupati o quando si mettono in campo dei progetti industriali seri. Tutto questo è accompagnato da un drastico taglio degli ammortizzatori sociali, come è accaduto con il Jobs Act, che ci porta ad affrontare le crisi senza neanche una continuità di rapporto di lavoro. Oltre al fatto che molte aziende, ormai, tendono a non usare più gli ammortizzatori ma a licenziare direttamente, perché sono stati resi più economici e più facili i licenziamenti.

Totale assenza di politiche industriali significa che non c’è una volontà di conservare almeno l’esistente, che è poi la base per lo sviluppo industriale e per il consolidamento, non c’è una scelta d’investimenti strategici prioritari da parte del pubblico, che servono poi da volano per investimenti privati.

 

Oltre i dati trionfalistici c’è quindi un mondo, quello dell’impresa manifatturiera, ancora in forte crisi. Dal tuo osservatorio, che scenario industriale vedi di fronte a te nel nostro paese?

Certamente non buono. In questi ultimi anni - almeno dalla metà degli anni Novanta - l’Italia ha perso il primato nell’informatica, che aveva con Olivetti, e oggi in questo settore abbiamo tutte multinazionali straniere che progettano all’estero e nel nostro paese fanno subfornitura. Abbiamo perso l’elettrodomestico perché non ci sono più Indesit, Merloni e Zanussi ma ci sono Electrolux e Whirlpool, che mantengono solo assemblaggio e manifattura. Abbiamo quasi perso l’auto, perché FCA – checché se ne dica – non ha più la testa in Italia e io non conosco un paese industrializzato di primo livello, come l’Italia dovrebbe essere, che non abbia una forte industria dell’auto. Perché l’auto insieme al militare sono i due volani della ricerca e della tecnologia. Non avere un’industria dell’auto e non porsi questo tema in prospettiva significa scegliere di essere un paese che fa assemblaggio e subfornitura. Stiamo perdendo anche la siderurgia, dove siamo ancora il secondo paese produttore essendo il secondo paese manifatturiero, perché dopo quello che è successo a Piombino e Terni ora c’è anche Taranto, dove la cordata che conteneva Cassa Depositi e Prestiti, quindi soldi pubblici, ha perso e si andrà verso una nuova proprietà privata multinazionale.

Asset strategici sono stati persi e manca un’idea di politica industriale in chiave di conservazione e implementazione, in termini ambientali e di qualità dei prodotti, che sono poi il trascinamento di una filiera. Se noi pensiamo che in Italia non si ragiona dell’auto elettrica, mentre già sappiamo che diversi paesi europei dal 2040 non faranno più circolare automobili a benzina e diesel e noi continuiamo a produrre solo quelle, significa che da questo punto di vista ci poniamo fuori da quel mercato. Tutto ciò vuol dire poi un mancato trascinamento, perché elettrico significa ragionare di rifornimento dell’energia e quindi di come si ristruttura il territorio. Abbiamo Enel che sta facendo investimenti nel resto del mondo in tal senso ma in Italia non si riesce neanche a parlarne.

Insomma, dire come fa il Governo che c’è una crescita del Pil quando siamo il fanalino di coda, senza trascinamento e senza una visione di politiche industriali di qualità, penso sia una presa in giro. Così come lo è quello sulla ripresa dell’occupazione, perché bisognerebbe ricordare che negli ultimi anni è cambiato anche il modo in cui l’Istat calcola l’occupazione: oggi basta lavorare un’ora a settimana e che si stia lavorando in quel momento per rientrare nelle statistiche come occupato. Si tratta, invece, di un’occupazione temporanea in molti casi, neanche a tempo determinato. Se abbiamo una situazione in cui non cresce il volume di lavoro necessario e si va in pensione a 70 anni, chiaramente avremo un’occupazione di tipo sostitutivo – e questo riguarda il privato ma anche il pubblico - perché la necessità di fare cassa, la finanza come punto di riferimento, il pareggio di bilancio in Costituzione stanno portando dei tagli furibondi anche al welfare, che non solo è reddito ma anche lavoro. Questo nella scuola e nella sanità è ormai evidentissimo.

 

Un contesto sociale ed economico, stravolto da anni di crisi economica, in cui la politica sembra non intercettare più i bisogni di chi per vivere ha bisogno di lavorare…

Una società che va in questa direzione, in cui le ingiustizie sociali sono ad un livello altissimo e tendono sempre più a crescere, è una società fondata sulla precarietà, in cui anche tra gli occupanti di case ci sono lavoratori dipendenti che, nonostante il lavoro ce l’abbiano, sono poveri, perché il lavoro non dà più garanzie. E tutto questo ha degli effetti sulla democrazia molto consistenti. L’idea che si debba votare chi comunque ti fa stare peggio, perché non c’è un cambio reale tra le politiche messe in campo da questo o quello schieramento, sta portando a un distacco enorme dei cittadini e dei lavoratori dalla politica. Tant’è che sono tutti lì a dividersi le percentuali del voto ma nessuno dice che la maggioranza non vota più e nessuno se ne occupa. Questo è un dato per l’Italia ma vale per tutto il mondo occidentale. I giovani che non vanno a votare hanno consentito che in Europa accadessero delle cose impensabili in precedenza, come la Brexit.

 

Hai parlato adesso di disuguaglianze sociali in relazione alla tenuta democratica, anche istituzionale, nel nostro paese. Non posso che pensare alle tante volte in cui Stefano Rodotà – recentemente scomparso – ha insistito proprio sulla pericolosità di questo nesso…

 

Sono stata ai funerali di Stefano Rodotà e mi ha molto colpito, alla fine della commemorazione all’Università la Sapienza, un lungo applauso, davvero interminabile, di mezz’ora, di un popolo intero: c’erano studenti, donne, lavoratori. Con Rodotà c’è stata una fortissima identificazione, che è una cosa rarissima. Io credo che Rodotà abbia colto subito, con la vicenda Fiat, il nesso tra democrazia nei luoghi di lavoro e democrazia nel paese. Cancellare la Costituzione e i diritti di rappresentanza e contrattazione nei luoghi di lavoro, considerare i lavoratori come puri strumenti di produzione, senza tenere conto degli effetti sulla salute e sull’ambiente, sono gli aspetti contro cui ci siamo battuti negli ultimi anni. Quando si attaccano i diritti dentro i luoghi di lavoro, si mette in discussione l’idea stessa di una società fondata sul diritto e sulla Costituzione. Rodotà questo elemento l’ha capito benissimo ed è stato al fianco della Fiom sempre, compresa la manifestazione “Via Maestra”. Rodotà ha anche molto apprezzato e compreso la nostra scelta di fare ricorso alla legge per applicare la Costituzione in fabbrica. Noi abbiamo preteso che lo stato italiano difenda la sua Costituzione dentro e fuori i luoghi di lavoro e lui questa nostra radicalità l’ha capita. Il tenere insieme la battaglia sulla democrazia nei luoghi di lavoro con la battaglia per i beni comuni – penso alla questione del Teatro Valle piuttosto che il referendum sull’acqua pubblica – lo hanno reso esattamente l’opposto della cosiddetta “casta”: un grande giurista, un grande intellettuale, un grande politico che stava però nelle manifestazioni di piazza, al Valle occupato, alle assemblee di Pomigliano. Lui ha incarnato questo tratto distintivo - che la Fiom cerca sempre di mantenere - cioè la messa insieme di teoria e pratica, di strategia e impegno concreto. Rodotà è stato la vera forza contro un’antipolitica dilagante e ha rappresentato per i lavoratori metalmeccanici, per un popolo intero, un esempio concreto.

 

Rodotà, come ricordavi, è stato anche un grande “amico” della Fiom. Hai in mente qualche iniziativa che rimetta al centro il suo pensiero e il suo instancabile contributo?

 

Dal 2011 in avanti, dallo scontro con la Fiat su Pomigliano, abbiamo avuto la fortuna di essere accompagnati da Stefano Rodotà in tutti i passaggi fondamentali della vita della nostra organizzazione: in piazza, nei seminari, nei convegni, nei Comitati Centrali, lui è sempre intervenuto e ha sempre accettato i nostri inviti. Per questo stiamo pensando a un video e a un volume che diano conto, anche esternamente alla Fiom, del suo contributo intellettuale e di militanza. Nel presentare questo lavoro ci piacerebbe invitare gli altri quattro protagonisti che, insieme a lui, hanno dato vita alla “Via Maestra”, quindi Zagrebelsky, Don Ciotti, Carlassare e Landini, proponendo loro un’iniziativa che metta al centro quel nesso tra teoria e prassi che è sempre stato molto forte in Rodotà. Vorrei anche che fosse l’occasione per ragionare di democrazia e lavoro, della società autoritaria e dell’autoritarismo dentro i luoghi della produzione.

 

Veniamo a un tema di novità in casa Cgil. Maurizio Landini è entrato nella Segreteria nazionale della confederazione. Come valuti questo passaggio?

 

Penso che l’ingresso di Maurizio nella Segreteria della Cgil sia un fatto molto importante e voglio valorizzare questa novità.

Dopo venti anni la Fiom rientra nella Segreteria della Cgil, colmando quest’anomalia, perché siamo comunque il più grande sindacato dell’industria e abbiamo la nostra storia, a livello nazionale e non solo. Io dico poi che entra Maurizio Landini nella Segreteria della Cgil, perché ci sono le organizzazioni ma anche le persone che le dirigono. Credo che Maurizio abbia fatto un lavoro straordinario in questi anni rispetto a tante questioni: dallo scontro con la Fiat, alla differenza sindacale che si è aperta per un lungo periodo con la Cgil - perché non è stata una differenza politica o di posizionamento di aree, ma è stata una differenza sindacale – fino allo scontro con il Governo sul Jobs Act e la scelta dei referendum.

Siamo in una situazione cosi drammatica, per la crisi della politica, per la mancanza di politiche industriali e per i continui attacchi al lavoro, che o noi abbiamo la capacità di allargare e consolidare la coalizione delle lavoratrici e dei lavoratori - perché questo è il sindacato - oppure rischiamo di fare testimonianza. E i lavoratori metalmeccanici – lo so per esperienza - non hanno nessun interesse a fare testimonianza, ma vogliono cambiare le cose.

 

Il 2018 – presumibilmente – sarà anche l’anno del congresso. Può essere una vera occasione di cambiamento per l’organizzazione, anche rispetto al tema della proliferazione dei contratti e della necessità di riunificare il lavoro?

Vogliamo affrontare le complessità. La Fiom ha interesse che la discussione sia ampia e coinvolga davvero tutta la Cgil, ognuno con le proprie specificità. Siccome in questi anni i lavoratori sono spesso rimasti soli, ricattati e precari, hanno visto un proliferare dei contratti, credo allora che il tema sia di riportare dentro una rappresentanza chi oggi si sente solo, in un puro rapporto commerciale di vendita della propria forza lavoro con l’impresa; perché il lavoro ha diritto a una coalizione.

Le tecnologie possono essere usate in tanti modi, possono dirci tramite App dove andare a prendere una consegna o possono essere utilizzate per sostituire con un robot una determinata quantità di lavoro umano, ma possono anche essere utilizzate per fare tutto questo ridistribuendo però la ricchezza prodotta e migliorando le condizioni. C’è un tema di non neutralità che si affronta solo se ci si mette insieme, se ci si coalizza.

Io, ad esempio, continuo a pensare che si possa fare un lavoro flessibile in tanti modi, ma senza un orario di lavoro contrattato, collettivamente definito e un salario di riferimento…beh quello non è un lavoro. E penso che contrattare sia il compito della Cgil.

 

*Intervista in uscita su Inchiesta n.197, luglio-settembre 2017

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