Landini: Contratto, referendum, Europa. La Fiom alla prova dei 115 anni

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In occasione del 115° anniversario della fondazione della Fiom - e nel pieno della vertenza per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici - abbiamo intervistato il segretario generale, Maurizio Landini.

La Fiom nasce a Livorno il 16 giugno 1901. 115 anni di storia che, attraversando tutto il Nocecento, mettono prepotentemente i piedi nel XXI secolo. Una storia lunga e dalle radici ben salde si potrebbe dire…

Beh…Le ragioni che hanno dato vita alla Fiom e al sindacato confederale in Italia – attraverso la nascita delle Camere del Lavoro - sono ancora oggi le radici a cui rifarsi. Di questo non ho dubbi.

La Fiom nasce come sindacato di operai e impiegati metallurgici ma con la precisa idea di riunificare tutto il mondo del lavoro, escludendo perciò di essere solo un sindacato di mestiere e puramente aziendale. Questo l’ha sempre dimostrato in tutta la sua storia, tutelando le condizioni di vita e di lavoro delle persone e contrattando i contenuti della prestazione lavorativa, non solo in una dimensione aziendale e con una precisa idea di trasformazione sociale del paese. La Fiom – proprio in virtù di questo – ha sempre avuto una soggettività non solo sindacale ma anche politica, nel senso di una visione del mondo e di un progetto di società, di trasformazione sociale.

Penso siano queste le caratteristiche che hanno permesso alla Fiom di essere una tra le organizzazioni con la storia più lunga. La mutualità, la socialità e la riunificazione del lavoro – cioè i temi di fondo che hanno portato alla nascita del sindacato a fine Ottocento - tornano oggi ad essere centrali più che mai.

Che scenario ha davanti a sé oggi chi fa sindacato e chi per vivere deve lavorare? Non dei migliori direi…

Oggi assistiamo ad una grandissima frammentazione del mondo del lavoro. È stato completamente disatteso il principio costituzionale che a parità di lavoro e di mansione deve corrispondere parità di diritti e retribuzione. La tendenza delle imprese è quella di andare verso il superamento della contrattazione collettiva come mediazione di interessi tra il capitale e il lavoro. Questo significa che non c’è più una sede comune che definisce i diritti che le imprese riconoscono come elemento di mediazione sindacale ma si sta tentando di affermare il fatto che l’impresa è l’unico “luogo” deputato a gestire in maniera unilaterale il rapporto di lavoro. Se passasse questa logica si determinerebbe che ogni azienda è diversa dall’altra, che ognuna ha una sua storia e che i diritti delle persone non sono più uguali ma dipenderebbero dai singoli rapporti di forza.

Insomma, è sotto attacco il concetto stesso di autonomia sindacale, perché una dimensione puramente aziendale porta non solo alla corporazione ma anche al superamento della distinzione tra il lavoro e l’impresa.

Se questo è lo scenario che abbiamo di fronte, ragionare del fatto che un’organizzazione come la Fiom compie 115 anni significa interrogarsi non solo sul perché sia vissuta così a lungo ma, se possibile, lavorare affinché ne possa avere almeno altrettanti davanti a sé. È possibile che il mondo del lavoro ritrovi le ragioni per avere una sua unità, una sua autonomia e una sua indipendenza per affermare una mediazione sociale diversa? Queste sono le domande a cui siamo chiamati a rispondere. A mio parere abbiamo la necessità di riaffermare un progetto di trasformazione sociale e una mediazione tra il capitale e il lavoro. Il lavoro deve continuare ad avere almeno una pari dignità rispetto all’impresa.

Penso di poter affermare, senza essere smentito, che in questi ultimi decenni il lavoro e i lavoratori hanno subito un attacco frontale senza precedenti…

L’attacco non è avvenuto solo sul piano dei rapporti di forza contrattuali ma anche a partire dal fatto che oggi il capitale – sempre più finanziario – sta pesantemente incidendo sul quadro politico; lo sta condizionando al punto che anche la produzione legislativa, su tutte le questioni del lavoro - dai diritti fino al funzionamento dell’impresa - sta rispondendo a una logica di massima libertà d’azione per l’impresa e per i suoi interessi.

Quando si arriva al punto che si decide per legge cosa si può contrattare e cosa no, che se i soldi vengono dati alle imprese in un modo non ci si paga le tasse e se lo si fa attraverso il contratto nazionale c’è una tassazione più alta, vuol dire che l’attacco è al massimo livello. Se poi a tutto questo aggiungiamo i provvedimenti legislativi che, in giro per il mondo, vanno nella direzione di lasciare sempre più spazio all’azione autonoma dell’impresa anche sul piano del diritto a poter licenziare, è evidente che siamo di fronte al tentativo di messa in discussione dell’esistenza stessa del sindacato. Proprio per questo penso – come dicevo poco fa – che sia il momento di ridare vigore alle origini e alle ragioni per cui è nata la Fiom, per cui è nata l’organizzazione sindacale e per cui è stato riconosciuto il diritto di coalizione alle persone.

Perciò non vogliamo solamente celebrare una ricorrenza per i 115 anni della Fiom ma vogliamo ragionare su quella che è stata l’evoluzione della contrattazione collettiva in rapporto alle trasformazioni sociali: attraverso le feste e i momenti pubblici che stiamo costruendo vogliamo riproporre l’idea di un nuovo contratto nazionale, che affermi una mediazione sociale, permetta al lavoro di essere unito e abbia davvero la forza per negoziare e contrattare con le imprese, con la politica e con il governo.

Veniamo alla principale battaglia sulla quale siete impegnati in questi mesi: il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro dei metalmeccanici. Che mi dici in merito?

Per prima cosa mi sembra molto significativo che le organizzazioni sindacali dei metalmeccanici (Fim, Fiom e Uilm), pur avendo presentato due diverse piattaforme e pur avendo alle spalle 8 anni di contratti separati e di lacerazioni – pensiamo anche a tutta la vicenda Fiat – abbiano proclamato insieme lo sciopero generale della categoria con manifestazioni regionali, un pacchetto di ore di sciopero e il blocco degli straordinari. Questo perché è evidente a tutti che la posizione di Federmeccanica è quella di andare verso un ridimensionamento del ruolo e della funzione del contratto nazionale e di spostare il baricentro delle relazioni a livello aziendale, fino - di fatto - a considerare la contrattazione aziendale sostituiva e alternativa su molti punti al contratto nazionale stesso.

Pensi all’avanzata del cosiddetto “modello Marchionne” anche in Federmeccanica?

Formalmente siamo in presenza di una proposta che non arriva alla radicalità della Fiat, perché Federmeccanica afferma che nominalmente i minimi salariali potrebbero aumentare. Detto questo però vorrei ricordare che si sta parlando di aumenti salariali che verrebbero dati solo a quelli che hanno un salario individuale inferiore al contratto nazionale, cioè praticamente nessuno! Stiamo parlando del 5% della categoria. Quindi, se è tecnicamente corretto dire che ciò che propone Federmeccanica non è la stessa proposta della Fiat, voglio però sottolineare che la logica sembra essere la stessa. È indubbio che quanto avvenuto in Fiat negli ultimi anni ha condizionato la stessa Fedemeccanica. Se noi oggi accettassimo la proposta di Federmeccanica il contratto nazionale non sarebbe più lo strumento per aumentare il salario per tutti i lavoratori metalmeccanici, almeno nella funzione di tutelarlo dal potere d’acquisto del salario. E questo significherebbe il venir meno di una funzione determinante del Ccnl stesso, perché il contratto nazionale o è lo strumento di tutela del salario e dei diritti di tutti – e sottolineo tutti - i lavoratori o altrimenti se ne perde il senso, divenendo di fatto inutile e antisolidale.

Mi sembra di capire dalle tue parole che sia l’esistenza stessa del contratto nazionale e del ruolo del sindacato ad essere sotto attacco…

Il valore del contratto nazionale di lavoro è proprio quello di essere l’unico strumento che ha permesso fino ad oggi a qualsiasi persona che lavora in un’azienda - sia essa di 3 dipendenti come di 1000 e che si trovi al Sud piuttosto che al Nord - di avere delle tutele e dei diritti comuni. Questa funzione verrebbe messa in discussione perché Federmeccanica ci dice che da qui in avanti è l’azienda il soggetto che decide gli aumenti salariali reali e, di fatto, non si avrebbero più due livelli contrattuali. Nel nostro paese da molti anni, pur con molte difficoltà, avevamo sancito un sistema in cui al contratto nazionale si poteva aggiungere la contrattazione aziendale, che era non sostitutiva ma integrativa sulle prestazioni lavorative. In più, oggi le imprese pensano di utilizzare a pieno tutto il quadro legislativo che il Governo ha messo loro a disposizione, sia sul versante dei licenziamenti, sia sul versante delle riorganizzazioni – penso alla questione degli appalti. La volontà dominante è insomma quella di avere più mano libera possibile nella gestione della prestazione lavorativa.

Confindustria ha da poco eletto il suo nuovo Presidente. Anche la confederazione degli industriali è schierata sulle posizioni di Federmeccanica in merito al ruolo del contratto?

Beh, direi proprio di sì. È evidente che quello che sta facendo Federmeccanica ha un valore più generale, perché la stessa Confindustria ha assunto questa posizione come la propria: un nuovo sistema di regole contrattuali deve passare attraverso un ridimensionamento, se non quasi un superamento, dell’idea stessa di contratto nazionale di lavoro. Per questo il tavolo di trattativa dei metalmeccanici ha assunto centralità, perché quello che succede lì – come molte volte è avvenuto nel passato – non riguarderà solo i lavoratori metalmeccanici ma rischia di segnare la totalità del nuovo sistema di relazioni sindacali. Proprio per questa ragione credo che si sia arrivati ad uno sciopero generale unitario perché, al di là di differenze che ancora rimangono tra le organizzazioni sindacali, è evidente il rischio di snaturamento dell’idea stessa di sindacato confederale.

Cosa prevede a tuo avviso questo snaturamento che ha in testa la parte padronale del paese rispetto al ruolo e alle funzione del sindacato per come l’abbiamo conosciuto finora?

C’è l’idea di un sindacato che diventa molto aziendalista, come nel modello americano, ed è chiaro che siamo di fronte ad un arretramento secco della prospettiva e del sistema di relazioni sindacali. Teniamo conto che in tale contesto tutte le politiche fatte dagli ultimi Governi vanno in questa direzione. Pensiamo alla vicenda Fiat e a quanto avvenuto a Pomigliano, che in tanti all’inizio descrivevano come un caso eccezionale e non ripetibile, legato ad una condizione particolare. In realtà lì è iniziata una riscrittura delle relazioni sindacali che oggi sta portando anche l’insieme di Confindustria e del mondo imprenditoriale a motivare, per ragioni di competitività globale, il fatto che non si possono più reggere i due livelli contrattuali.

Come per la vicenda Fiat, pensi che il Governo stia giocando un ruolo da protagonista nel processo di ridimensionamento e snaturamento della funzione del sindacato?

Sul piano legislativo siamo in presenza – unico paese in Europa – di provvedimenti come l’Articolo 8, che permettono alle imprese di derogare non solo ai contratti ma addirittura alle leggi stesse. Se a ciò aggiungiamo le leggi sugli appalti e sul sistema di riorganizzazione delle imprese, la riduzione degli ammortizzatori sociali, la libertà di licenziare attraverso il Jobs Act, il controllo a distanza, la possibilità di demansionare, ci rendiamo conto che l’attacco al contratto nazionale sta dentro un’idea di ridisegno complessivo. E in quest’ottica leggo anche la discussione, già presente informalmente, su come limitare (a partire dai servizi essenziali…così ci dicono) il diritto di sciopero. Il sistema di relazioni sindacali, affermatosi a partire dal dopoguerra e sancito dalla nostra Carta costituzionale, che si fondava sul contratto nazionale e sulla contrattazione collettiva come strumenti di regolazione dei rapporti di lavoro, è radicalmente messo in discussione, a partire proprio dai suoi elementi fondanti: il diritto di associazione delle persone, che tecnicamente vuol dire non essere licenziato, non avere discriminazioni, fino a poter utilizzare anche il diritto di sciopero.

Per questo – come dicevo prima – l’attuale discussione sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici non è semplicemente di tipo quantitativo su salario e diritti. Lo scontro in atto, in questo passaggio epocale non solo del sistema di relazioni ma anche del funzionamento delle imprese, riguarda l’esistenza o meno di un sistema di mediazione sociale regolato dai contratti e dalla contrattazione collettiva. Il tema essenziale è se tutto questo debba mettere al centro solo l’impresa, relegando il lavoro ad uno dei tanti fattori della produzione, o se il lavoro e i lavoratori possano avere pari dignità, autonomia e indipendenza rispetto al capitale.

Come pensi andrà a finire la vicenda del rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici? Si arriverà a un accordo tra le parti? O magari sarà il governo stesso ad intervenire alla fine?

Non lo so davvero. È però indubbio che la riuscita delle manifestazioni e degli scioperi, che finora abbiamo messo in campo, siano elementi molto importanti. Vorrei sottolineare anche due aspetti. Il primo - e sarebbe stupido non prenderlo in considerazione - è che c’è di nuovo un’unità delle organizzazioni sindacali, quindi i lavoratori percepiscono, dopo anni di divisioni e di scontri, che la loro compattezza può essere l’unico strumento per impedire la deriva attuale. Il secondo è che le persone si rendono conto che senza contratto nazionale di lavoro anche la loro azione dentro i luoghi è molto più limitata.

Un altro aspetto, che spesso non viene tenuto nella giusta considerazione, è che, in un sistema di piccole e medie imprese come quello italiano, nella maggioranza delle aziende (poco meno del 65%) non si fa la contrattazione aziendale. Di fatto, non avere più il contratto nazionale di lavoro non solo cambierebbe la natura stessa della contrattazione aziendale ma significherebbe regalare più di metà della categoria all’azione unilaterale delle imprese.

Veniamo a un tema che, in vista del referendum in autunno, sta già infiammando il dibattito nel paese: la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi. La Fiom si è espressa per il no in maniera molto chiara e netta, ma del resto non è la prima volta che vi trovate a dover difendere la Costituzione contro il rischio di un suo stravolgimento…

Sarebbe utile ricordare un aspetto. La Fiom nello scontro con la Fiat è riuscita a impedire di essere cacciata fuori dagli stabilimenti - nel senso di riaffermare il nostro diritto ad avere rappresentanti, a contrattare, ad avere le libertà sindacali minime - proprio grazie all’intervento della Corte costituzionale, perché la nostra Carta impedisce che siano le imprese a scegliere quali sindacati gli convengono, limitando così la libertà sindacale.

Per quello che ci riguarda, quindi, si tratta di una lotta non solo in difesa della Costituzione – perché sarebbe riduttivo – ma una lotta sociale e politica per far sì che il cambiamento del paese sia fondato sull’applicazione dei principi della Costituzione. Non a caso – tornando alla nostra esperienza - la stessa Corte, per impedire che quanto era successo a noi all’interno della Fiat potesse riguardare anche altre organizzazioni, aveva sollecitato il mondo politico ad intervenire con leggi sulla rappresentanza che regolassero questa materia, a partire da quanto previsto dall’Articolo 39 della Costituzione. In tal senso è evidente che la nostra battaglia, per far sì che la Costituzione si applichi, non è solo generale o politica ma parte anche da un’esperienza diretta.

Anche in questo caso dalle tue parole emerge un giudizio molto negativo sull’operato di questo governo…

Non è un caso che il nostro Presidente del Consiglio trovi il modo ogni settimana di dire che il modello più bello in assoluto è quello di Marchionne e che il problema di questo paese sarebbero la Fiom e il suo Segretario generale. La scorciatoia indicata da Renzi è infatti quella di un modello “autoritario”, sia di gestione delle imprese che di gestione politica e sociale del paese, con una riduzione di fatto degli spazi di democrazia, partecipazione e anche conflitto - inteso come strumento per arrivare a mediazioni sociali accettabili tra i soggetti in campo. La Fiom, nel rispetto della sua storia e nel costante rapporto con i lavoratori, è da anni impegnata in questa battaglia, che è chiaramente di segno opposto rispetto a quanto stanno portando avanti gli ultimi Governi e in particolare quest’ultimo.

Ricordo che già durante il governo Letta si parlava di riforma della Costituzione e la Fiom, insieme ad altri soggetti e personalità – penso a Zagrebelsky, don Ciotti, Carlassare, Rodotà – organizzò una manifestazione a Roma proprio per indicare che la “via maestra” per il paese era l’applicazione dei principi della Costituzione. In virtù di questo percorso e coerentemente con le battaglie che abbiamo fatto negli ultimi anni, consideriamo negativa la riforma Renzi-Boschi, che va a modificare ben 48 punti della nostra Carta costituzionale. Il tutto è poi aggravato dal fatto che questa riforma si lega ad una legge elettorale che mantiene i premi di maggioranza e il peggio delle leggi elettorali del passato, aspetti sui quali la stessa Corte costituzionale si è espressa contro. Penso anche che questa riforma non affronti in realtà i problemi di una vera modifica del Senato.

Pensi insomma che ci troviamo di fronte ad un attacco complessivo alle ragioni di fondo per cui era stata pensata la nostra Costituzione?Poco fa hai parlato dell’emergere di un “modello autoritario”…

Se alla proposta di riforma elettorale sommiamo i provvedimenti sociali che sono stati messi in campo, risulta evidente che la prima parte della Costituzione - quella che in linea teorica definisce i principi fondanti del nostro vivere - viene radicalmente messa in discussione: dal diritto al lavoro, al diritto alla salute, dal riconoscimento ad un’equa retribuzione, all’affermazione del ruolo dello stato rispetto alla rimozione degli ostacoli per la realizzazione personale attraverso il lavoro. A volte ho la sensazione che il Presidente del Consiglio pensi di essere l’amministratore delegato di una multinazionale, che non deve rispondere a nessuno e che considera i vincoli democratici come insopportabili. Credo che questa torsione “autoritaria” sia il vero punto da respingere. Perciò la Fiom, a partire dai vari territori, è parte attiva dei comitati per il no alla riforma costituzionale e si sta impegnando a raccogliere le firme.

Tra l’altro siamo nel bel mezzo di uno sforzo straordinario da parte di tutta la Cgil e non solo per una nuova stagione referendaria. Immagino che anche la Fiom sia molto impegnata in questo percorso?

Sì. In questa fase stiamo lavorando per la raccolta di firme su tutti i referendum! Sia quelli decisi all’interno della Cgil per cancellare i voucher, per modificare la legge sugli appalti, per ripristinare il reintegro contro i licenziamenti ingiusti e per rimettere in discussione il Jobs Act, sia quelli “sociali” (scuola, ambiente e beni comuni), fino ad arrivare – appunto - a quelli sulla Costituzione e sulla legge elettorale. Credo che questa sia una battaglia molto importante da fare. Quando i cittadini possono partecipare e possono esprimersi liberamente questo è sempre fondamentale per la democrazia.

La Cgil nel corso dell’ultimo Comitato direttivo del 24 maggio scorso ha espresso un giudizio critico sull’impianto della riforma costituzionale del governo Renzi. Come valuti questa presa di posizione?

Penso sia molto importante la discussione che è partita in Cgil, perché è stato intanto dato un giudizio negativo da parte della confederazione su tutti gli aspetti della riforma costituzionale. In seguito – in virtù di quella valutazione – sarà possibile fornire anche un’indicazione di voto in merito. Io personalmente penso che un’organizzazione importante come la Cgil non possa esimersi da questo ruolo e, assieme ad altri compagni del Direttivo e come categoria, stiamo lavorando perché tutta la Cgil arrivi - come già successo in passato - a fornire pubblicamente un’indicazione di voto contrario ai propri iscritti e al paese. Del resto è la stessa cosa che facemmo nel 2006, quando Berlusconi tentò di modificare la nostra Carta. Ricordo che in quell’occasione la Cgil era parte integrante del movimento “Salviamo la Costituzione”, tanto che la sede nazionale del comitato referendario era proprio la sede della Cgil nazionale.

La situazione italiana è però indissolubilmente legata a quanto sta avvenendo in Europa, sia dal punto di vista politico che sociale. Pensi che anche a questo livello siamo di fronte a politiche “autoritarie”e che riducono gli spazi di democrazia?

Sì, queste tendenze sono un po’ presenti in tutta Europa. In Italia le riforme sociali, ma anche le riforme istituzionali, hanno subìto un’accelerazione proprio a partire dalla lettera della Bce all’allora Presidente del Consiglio Berlusconi. Non a caso da quel momento si giunge ad una prima modifica della Costituzione, che introduce il pareggio di bilancio e si viene affermando la logica che in nome delle politiche europee di austerità bisogna tagliare le pensioni, superare i contratti nazionali, introdurre i licenziamenti, superare l’articolo 18 laddove ancora c’è, eliminare le province, andare verso una privatizzazione dei servizi.

Stiamo assistendo alla crisi del modello sociale europeo in conseguenza delle politiche di austerità che in tutta Europa sono state messe in campo.

Anche in questo caso emerge dalle tue parole quel ruolo “politico” - nel senso di autonoma e indipendente visione del mondo - a cui la Fiom non ha mai rinunciato…

La battaglia per costruire un’Europa sociale - che oggi di fatto non esiste – non può che passare non solo per la difesa della nostra Costituzione ma anche portando la nostra Carta costituzionale in Europa. Va riaffermata una mediazione tra il lavoro e l’impresa e va combattuta invece la centralità assoluta del mercato, che di fatto cancella le persone e aumenta la competizione. Penso alla Grecia e alla Spagna, penso a quanto sta avvenendo in Francia in questi giorni, ma anche ai preoccupanti risultati elettorali in Austria, Ungheria e Inghilterra e mi rendo conto che se non riusciamo ad affermare un profilo democratico - nel senso di estensione vera della democrazia e della partecipazione - noi rischiamo sempre più una logica di frammentazione europea e di ritorno ad un passato che speravamo superato, fatto di nazionalismi, muri e contrapposizioni molto pericolose anche sul piano sociale e dei valori.

È indubbio che il sindacato confederale a livello europeo sia stato drammaticamente assente in questi anni di crisi. Condividi il bisogno di una maggiore presenza e presa di parola in tal senso?

Quest’anno è l’anno dei congressi: a giugno, a Madrid, si terrà il congresso dei metalmeccanici europei (Industry All Europe) e in ottobre, a Rio de Janeiro, si terrà il congresso della Federazione dei sindacati industriali mondiali (Industry All Global). La discussione non è certamente semplice, perché prevale sempre di più un tentativo di difendere ognuno la propria dimensione nazionale. È indubbio che la forza che oggi hanno le multinazionali nel poter spostare soldi dove vogliono e nel poter mettere in competizione i lavoratori tra di loro - anche grazie a provvedimenti legislativi che li aiutano in tal senso - è un elemento che sta rendendo difficile la costruzione di un’azione unitaria europea o internazionale da parte delle organizzazioni sindacali. Se a ciò aggiungiamo i livelli di disoccupazione europei, ci rendiamo conto che la strada da compiere per giungere ad una comune azione sindacale è ancora molto lunga e difficile.

Credo comunque che l’occasione che abbiamo con questi congressi sia da cogliere a pieno, perché si sta aprendo una discussione su quali debbano essere i diritti comuni, si sta ragionando di come rilanciare una politica di investimenti che rimetta al centro l’occupazione, si sta ragionando anche (con timidezza) di come si possa intervenire sugli orari di lavoro come elemento di redistribuzione. È un cammino non semplice ma non vedo alternative.

Che ruolo può avere il sindacato nella costruzione di un’Europa più inclusiva e solidale? Cosa può fare concretamente la Fiom e il movimento sindacale per rimettere al centro il lavoro?

È indubbio – per tornare all’inizio della nostra chiacchierata – che per arrivare a definire diritti comuni in Europa è necessario difendere i contratti collettivi nazionali. È da lì che si parte per estenderli a livello europeo. Al contrario – come è accaduto in Italia e come sta accadendo in questi giorni in Francia – la limitazione della contrattazione collettiva o la cancellazione dei contratti rende impossibile questo allargamento.

Da questo punto di vista, la battaglia che stiamo facendo per la difesa e la ridefinizione di un contratto nazionale di lavoro e di un suo allargamento diventa decisiva. Oggi ci sono milioni di lavoratori che sono senza contratto – oltre ai metalmeccanici penso al commercio e al pubblico impiego – e credo che si renda necessario, anche in Italia, arrivare ad un momento di riunificazione delle lotte di tutti i lavoratori per il rinnovo dei rispettivi contratti nazionali di categoria. Come Fiom lavoreremo certamente affinché le confederazioni siano in grado di mettere in campo anche quest’azione.

 

da “Inchiesta” n. 192, aprile-giugno 2016

 

http://www.inchiestaonline.it/archivio/e-uscito-il-numero-192-di-inchiesta-aprile-giugno-2016/