Industria, l'innovazione perduta

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Meglio tardi che mai. Con la quinta indagine sui macchinari industriali, l’UCIMU, (l’associazione di categoria del settore) ci fa sapere che l’industria italiana è vecchia, travolta da una diffusa e drammatica obsolescenza tecnologica. Le cifre sono impressionanti: quasi un terzo dei macchinari industriali ha più di venti anni, solo poco più del 10% dei macchinari ha più di 5 anni mentre l’età media del parco macchine nel 2014 è di poco meno di 13 anni, e addirittura il 79% del totale degli impianti produttivi non presenta nessun tipo di integrazione con le tecnologie dell’elettronica e dell’informatica. Una situazione aggravatasi nell’ultimo decennio ma che già era l’espressione di un contesto fortemente deteriorato. Nel 2005 – ci ricorda sempre l’UCIMU – l’età media del parco macchine aveva infatti raggiunto i 10 anni, un dato difficilmente conciliabile con l’idea che la carta vincente della competitività del manifatturiero italiano fosse quella dell’innovazione di processo. Ma la realtà era già quella di un declino avviato, e i cui contorni si sarebbero confusi di lì a breve con lo stato di sopraggiunta difficoltà determinato dall’esplosione della crisi internazionale.

Il forte rallentamento dell’attività economica e degli investimenti determinato dalla crisi, a cui oggi si vorrebbe ascrivere un tanto compromesso assetto della struttura produttiva, è dunque solo una componente – ancorché rilevante – dello stato di arretratezza tecnologica dell’industria italiana. Andando a ritroso emerge come ben prima dell’inizio della crisi – intorno al 2003 – la capacità propulsiva degli investimenti sulla domanda di macchinari avanzati stesse diminuendo, con effetti ben visibili sulla componente high tech delle importazioni di beni strumentali (quella relativa principalmente all’automazione industriale), caratteristica del “debito di tecnologia” del nostro Paese con il resto del mondo (Lucarelli, Palma e Romano 2013). A tale diminuzione non corrispondeva, peraltro, una contrazione del deficit negli scambi di beni strumentali high tech, rendendo più che palese l’indebolimento complessivo del livello tecnologico del settore. E rendendo ancora più palesi gli effetti sistemici su un apparato produttivo in cui da tempo si era depotenziata la base delle competenze tecnologiche, e dunque depotenziata tanto la capacità di produrre innovazione, quanto quella di domandarne, sulla base dello stretto rapporto esistente tra livello dell’avanzamento tecnologico e capacità di assorbimento di nuove tecnologie. L’avvento della crisi nel 2008 non ha fatto altro che accentuare queste tendenze, ritardando ulteriormente quegli investimenti che già da prima manifestavano una minore capacità di attivazione della domanda di nuove tecnologie.

I risultati dell’indagine UCIMU significano dunque molto di più di quanto non risulti dalla semplice – ancorché preoccupante – osservazione dell’invecchiamento del parco macchine dell’industria nazionale e del suo debolissimo grado di innovazione tecnologica. Significano che il sistema produttivo italiano è entrato – complice anche la crisi – in un processo di avvitamento che ha radici lontane e che sospinge l’intero sistema economico su un declino della produttività che ne compromette una volta di più le prospettive di crescita, rendendo ancora più insostenibili i vincoli finanziari dettati dall’Europa. E il rischio (in costante aumento) sarà quello che, in assenza di politiche a sostegno degli investimenti e di un allargamento della base produttiva in direzione di settori ad alta intensità tecnologica, via siano ulteriori arretramenti della competitività del Paese, che saranno mandati in addebito alla compressione dei salari, facendo finta di non sapere che questa è una strada senza uscita.

 

*Sbilanciamoci.info

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