Giovedì, 25 Aprile 2024

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Costituzione, contro la controriforma

Costituzione

 

Per evitare che il silenzio serbato dal Capo dello Stato, nel discorso di fine anno, relativamente alla riforma costituzionale Renzi-Boschi, assumesse un significato negativo per il Governo, l’Unità del 4 gennaio ha pubblicato un commento al discorso del 21 dicembre del Presidente Mattarella, limitatamente al passaggio nel quale aveva affermato che se la riforma Renzi non dovesse giungere a compimento in questa legislatura, subentrerebbe un senso di incompiutezza che «rischierebbe di produrre ulteriori incertezze e conflitti, oltre ad alimentare sfiducia, all’interno verso l’intera politica e all’esterno verso la capacità del Paese di superare gli ostacoli che pure si è proposto esplicitamente di rimuovere».

Beninteso, il Presidente Mattarella ha sottolineato di non voler entrare «nel merito di scelte che appartengono alla sovranità del Parlamento». Pertanto non sembra corretto interpretare tale passaggio, come ha fatto il commentatore, nel senso di una scelta di campo in favore della riforma Renzi-Boschi. E’ tuttavia vero che la frase del Presidente registra un sentimento di incompiutezza che qualsiasi Capo dello Stato avvertirebbe di fronte ad un prolungato impegno parlamentare non conclusosi positivamente.

Ciò premesso è però opportuno fare chiarezza su due punti del passaggio.

Il primo punto è che la vittoria del No, proprio perché il referendum ha sempre un significato bidirezionale, non sarebbe priva di significato. Se, come noi auspichiamo, la riforma Renzi verrà respinta dagli elettori, ciò vorrebbe dire che non noi, ma la Costituzione del 1947 ad aver vinto ancora, come già avvenne nel referendum confermativo del 2006, quando il 65 per cento degli elettori respinse la riforma Berlusconi, che prevedeva il “Premierato assoluto”, antesignano della riforma Renzi.

Tale sconfitta non produsse né incertezze né conflitti. Anzi, la netta vittoria del No fu salutata da Leopoldo Elia - vicino culturalmente e affettivamente al Presidente Mattarella come io lo fu a lui - come la legittimazione popolare che finalmente aveva coronato la Costituzione del 1947.

Ma c’è di più. Il referendum costituzionale è previsto e disciplinato dalla nostra Carta fondamentale come una “garanzia” della Costituzione (v. il Titolo VI intitolato “Garanzie costituzionali”), nel senso cioè che esso è stato studiato e previsto per “opporsi” alle modifiche della Carta che non siano votate dai due terzi delle Camere. E quindi è un espediente truffaldino che il Governo si faccia promotore del referendum, come già anticipato da Renzi, al fine di distorcerne il senso e le finalità “oppositive”, per trasformarlo in un plebiscito in favore del Governo.

Il secondo punto è che l’auspicabile fallimento della riforma Renzi sarebbe tutt’altro che immotivato, perché essa privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce il potere d’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del Governo; prevede almeno sei o sette tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca contraddittoriamente la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-time delle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci.

Mi fermo qui, ma potrei continuare ancora a lungo: dall’esclusione del Senato nella deliberazione dello stato di guerra (leggi: l’invio all’estero delle missioni militari) ai cinque inutili senatori rappresentanti pro-tempore del Presidente della Repubblica in carica, ai difficili raccordi del Senato delle autonomie sia con lo Stato, sia con le stesse Regioni (i governatori stanno là e non a Palazzo Madama!) sia infine con l’Unione europea…

Ma come si è potuti pervenire a questo risultato a dir poco confuso e contraddittorio? Sulla base di quali accadimenti storico-politici ciò è stato possibile?

Ciò dipende da due accadimenti tra loro contrastanti: da un lato la sentenza n. 1 del 2014 con la quale la Corte costituzionale dichiarò l’incostituzionalità della legge elettorale in forza del quale la XVII legislatura era stata costituita; dall’altro l’inosservanza, da parte del Governo e della maggioranza parlamentare, dei limiti temporali che tale sentenza imponeva al legislatore.

Mi spiego meglio. La Corte, pur dichiarando l’incostituzionalità del Porcellum, consentì espressamente alle Camere di continuare ad operare e a legiferare, non però in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie a un principio fondamentale del nostro ordinamento conosciuto come il «principio di continuità dello Stato». La Corte richiamò due esempi di applicazione di tale principio: la prorogatio dei poteri delle Camere, a seguito delle nuove elezioni, finché non vengano convocate le nuove (art. 61 Cost.); la possibilità delle Camere sciolte di essere appositamente convocate per la conversione in legge di decreti legge (art. 77 comma 2 Cost.). Ebbene, in entrambe tali ipotesi, il «principio fondamentale della continuità dello Stato» incontra limiti di tempo assai brevi, non più di tre mesi!

Pertanto, ammesso pure che le nuove elezioni non potessero essere indette nei primi mesi del 2014 perché lo scioglimento delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco, è però del tutto evidente l’azzardo istituzionale, da parte del Premier Renzi e dell’allora Presidente Napolitano, di iniziare una revisione costituzionale di così ampia portata nonostante la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, e quindi con un Parlamento delegittimato quanto meno politicamente, se non anche giuridicamente, con parlamentari non eletti ma “nominati” grazie al Porcellum, insicuri di essere rieletti e perciò ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente. Il che è dimostrato dal record, nella XVII legislatura, di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro «con 325 migrazioni tra Camera e Senato in poco più di due anni e mezzo, per un totale di 246 parlamentari coinvolti».

Di questa situazione di fatto, priva di chiarezza istituzionale e politica, l’attuale Presidente del Consiglio ne ha approfittato, abilmente e spregiudicatamente, con indubbio tempismo e col favore dell’allora Presidente della Repubblica, mettendo immediatamente in cantiere sia la riforma costituzionale sia il c.d. Italicum, la combinazione dei quali conduce alle distorsioni costituzionali ed istituzionali che ho precedentemente elencato ( e non solo!).

Il 29 dicembre, nella conferenza di fine anno, Matteo Renzi si è formalmente impegnato a dimettersi da Presidente del Consiglio dei ministri qualora prevalesse il No nel referendum confermativo. Nell’impegnarsi a dimettersi in caso di sconfitta, Renzi ha però inequivocabilmente ammesso che la paternità della riforma costituzionale è stata del Governo e non del Parlamento, come invece dovrebbe essere e come è sempre stato finora (con l’eccezione della riforma costituzionale Letta, altrettanto criticabile).

Il che risponde alla semplice, ma ovvia, ragione istituzionale di non coinvolgere nell’indirizzo politico di maggioranza il procedimento di revisione costituzionale, il quale si pone ad un livello ben più alto della politica quotidiana: un livello al quale anche le opposizioni devono poter avere voce in capitolo.

Se ciò è vero, gli accadimenti occorsi sia in commissione sia in aula, che qui di seguito ricorderò, non costituiscono delle discrepanze procedurali. Sono invece perfettamente funzionali all’indirizzo governativo incostituzionalmente impresso al procedimento di revisione costituzionale. Mi limito a citarne quattro.

Primo. La rimozione, nel luglio 2014, dalla Commissione Affari costituzionali del Senato in sede referente, di due parlamentari (i senatori Mauro e Mineo), i quali, insieme ad altri 14 senatori, avevano invocato il rispetto della libertà di coscienza per ciò che attiene alle modifiche della Costituzione. Venne però eccepito, dall’allora vice capo gruppo del PD al Senato, che la libertà di coscienza non poteva essere invocata perché «Tra i principi fondamentali della Costituzione non rientrano certo le modalità di elezione del Senato», evidentemente qualificando come una semplice modifica del sistema elettorale lo stravolgimento in atto del ruolo e delle funzioni del Senato.

Secondo. In sede di prima lettura del d.d.l. cost. n. 2613 la sen. Finocchiaro assunse le funzioni di relatore di maggioranza e il sen. Calderoli le funzioni di relatore di minoranza. In sede di terza lettura (d.d.l. cost. n. 2613-B), mentre le funzioni di relatore di maggioranza della sen. Finocchiaro le vennero confermate, le funzioni di relatore di minoranza non vennero assegnate. Eppure si trattava di un procedimento di revisione costituzionale di cui la minoranza è parte necessaria.

Terzo. Nella seduta del 1° ottobre 2015 venne messo in votazione l’emendamento (n. 1.203) a firma dei senatori Cociancich e Luciano Rossi,, strutturato in modo tale da precludere tutta una serie di votazioni che avrebbero richiesto il voto segreto, con notevoli rischi per il Governo e per la maggioranza. Il sen. Mineo giustamente lamentò che l’emendamento Cociancich avrebbe impedito all’Assemblea di «migliorare in ordine alla competenze del Senato» e avrebbe ristretto «ancora di più il dibattito trasformandolo soltanto in un sì o in un no rispetto a ciò che vuole il Governo». E così è stato.

Quarto. La versione definitiva del futuro art. 57 Cost., di cui all’art. 2 d.d.l. n. 2613-B, prevede, nel momento in cui scrivo, due commi tra loro antitetici, uno che prevede che i senatori saranno eletti dai consigli regionali (comma 2), l’altro secondo il quale tale elezione dovrà avvenire «in conformità alle scelte degli elettori» (comma 5). Il che non sfugge alla seguente alternativa: o l’elezione da parte del Consigli regionali sarà meramente riproduttiva della volontà degli elettori e sarà quindi inutile; oppure se ne distaccherà, e in tal caso finirebbe per violare l’art. 1 Cost. che garantisce l’elettività diretta degli organi titolari della potestà legislativa.

Per la verità la via per uscire da questa contraddittorietà era addirittura …un’autostrada! La Giunta del Regolamento della Camera, Pres. Napolitano, il 5 maggio 1993, nel corso della modifica dell’art. 68 Cost., «in considerazione dell’atipicità del procedimento di revisione costituzionale» (e quindi in considerazione del doveroso rispetto nei confronti della Costituzione!), aveva infatti correttamente ritenuto ammissibile l’emendamento soppressivo di un comma già favorevolmente votato dai due rami del Parlamento (caso analogo all’attuale).

Ciò nondimeno la Presidente Finocchiaro, nella seduta del 2 ottobre 2015, senza andare troppo per il sottile, ha affossato tale precedente sulla base di un duplice, specioso argomento: 1) che la riaffermazione dell’eleggibilità diretta del Senato avrebbe altresì implicato la titolarità del rapporto fiduciario col Governo; 2) che l’ammissibilità dell’emendamento soppressivo dell’art. 2 comma 2 d.d.l. n. 1429-B sarebbe stato preclusivo dell’intera riforma.

Argomenti entrambi inesatti. E’ infatti falso che il conferimento agli eletti della titolarità del rapporto fiduciario consegua dall’elettività del Senato, costituendo piuttosto una mera scelta di diritto positivo spettante al legislatore costituzionale. Altrettanto falso è che l’emendamento soppressivo del comma 2 avrebbe precluso l’intera riforma Renzi. Se esso fosse stato favorevolmente votato, la sola conseguenza sarebbe stata la riconferma dell’elettività diretta del Senato. Nulla di più.

 

*Presidente del Comitato per il No

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