Inattivi non per caso: la disoccupazione nascosta

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A fine ottobre due dati hanno risvegliato un po’, ma solo per un po’ e comunque mai abbastanza, l’attenzione dei media sull’elevato peso degli inattivi in Italia. Il primo è stato diffuso da Eurostat. Secondo l’ufficio di statistica della comunità europea - che per dirlo ha usato i dati rilevati dai singoli istituti nazionali - l’Italia ha un prevedibile record: per ogni 100 individui che risultavano disoccupati nel primo trimestre di quest’anno si stima che ben 35 siano di fatto usciti dal mercato del lavoro nel trimestre successivo collocandosi fra gli inattivi. Quei 35 non solo non hanno trovato un lavoro ma - diversamente da altri 48 che sono rimasti disoccupati pur continuando a cercare lavoro - hanno anche smesso di cercarlo attivamente, il che poi vuol dire che non lo hanno fatto per almeno quattro settimane precedenti l’intervista. Secondo le definizioni internazionali, per questo motivo non sono né occupati né più disoccupati: siccome non cercano attivamente lavoro entrano a far parte dei cosiddetti inattivi, non sono di fatto sul mercato del lavoro, sono “non forza di lavoro”, e in quanto tali il tasso disoccupazione non li deve per definizione tenere in conto. Se, purtroppo solo per paradosso, quei 35 neo-inattivi avessero per esempio avuto sotto mano dei servizi per l’impiego pubblici ben diffusi e attivi sul territorio (e sui quali dunque si fosse investito bene) molti di loro almeno una azione di ricerca l’avrebbero probabilmente fatta e, a parità di altre condizioni, sarebbero entrati a far parte della misura dei disoccupati.

In Irlanda ogni cento disoccupati nel primo trimestre, in quello successivo 67 sono rimasti disoccupati e solo in 16 sono diventati inattivi, meno della metà che da noi; in Spagna, dove i servizi per il lavoro infatti non mancano, i neo-inattivi sono appena 12 mentre 70 restano senza lavoro ma fanno qualcosa per cercarlo. È uno dei “segreti” del tasso di disoccupazione spagnolo, che a settembre era al 21,6% contro il pur sempre alto 11,8% dell’Italia. In Spagna per i disoccupati è più facile cercare lavoro e perciò restano disoccupati anche nelle statistiche. Morale: se si guarda per motivi di consenso solo al tasso di disoccupazione, non conviene investire nelle politiche del lavoro.

Se si guarda solo il tasso di disoccupazione vuol dire che non si vuole vedere il resto. Il tasso di disoccupazione, questo in generale ma in particolare nel nostro paese, è un indicatore sempre più privo di senso se non viene per lo meno affiancato da altri indicatori, fra i quali quelli che riconoscano esplicitamente il fatto che nella massa degli inattivi si trova un gran numero di individui che non sono fuori dal mercato del lavoro: sono solo privi di servizi che li sostengono, si “scoraggiano”, contano su canali informali. Il tasso di inattività in Italia è fra i più alti dell’Europa a 28 stati, soprattutto e drammaticamente per i giovani e le donne, e in modo particolare nelle regioni del sud, dove non a caso il ruolo dei “canali informali” è più sinonimo di potere che altrove, un potere che andrebbe scardinato. Fra i giovani fra i 20 e i 24 anni il tasso di inattività italiano era al 54,5% nel 2014 contro 38,8% della media Ue, il 31% della Germania e il 42,2% della Spagna. Solo in Bulgaria è più elevato. Per le giovani donne quel tasso sale al 60,9%. Per le donne nella piena età lavorativa il tasso di inattività italiano è il peggiore d’Europa. Nel secondo semestre del 2015 nella media delle regioni del Mezzogiorno la metà delle donne in età compresa fra 35 e 44 anni risulta inattiva (nel Nord siamo al 20%).

Sono cifre impressionanti, e l’obiettivo di ridurre drasticamente l’inattività femminile – fissato nella cosiddetta strategia di Lisbona 2010 – è stato miseramente mancato o semplicemente ignorato per molti anni. L’informalità del nostro mercato del lavoro, che non fa rima con democrazia, non è notizia di oggi, è là da anni e là è rimasta, anzi peggiora: sarà perché tiene bassi i salari e i diritti, lo schema della nostra competitività. Lo conferma il secondo dato, diffuso stavolta direttamente dall’Istat: a settembre il tasso di inattività dell’Italia ha ricominciato a salire, mentre invece avrebbe proprio dovuto scendere.

Il tema dell’inattività è la vera emergenza del mercato del lavoro italiano: quasi non si dovrebbe parlare di altro, visto che oltretutto l’informazione della statistica pubblica sugli inattivi è da anni piuttosto articolata. In Italia il numero effettivo dei senza lavoro è potenzialmente molto più alto di quello registrato con il tasso di disoccupazione. Se aggiungessimo ai disoccupati “per definizione” anche i quasi 3 milioni che appartengono alla cosiddetta “zona grigia” dell’inattività, ossia che non cercano lavoro attivamente pur desiderando lavorare, il tasso di disoccupazione viaggerebbe ben oltre il 20%. Non c’è paese in Europa dove queste forze di lavoro potenziali hanno un incidenza così forte. In Germania farebbero aumentare il tasso di disoccupazione solo di 1,3 punti percentuali, in Francia di appena un punto, in Spagna di 4,7 punti. In Italia il tasso aumenterebbe di oltre 11 punti!

La frammentazione sociale che sta dietro al fenomeno dell’inattività si spiega in buona parte da sola attraverso la composizione della zona grigia: giovani, donne, sud. Le aree di disagio dunque. Ma intervengono anche altri elementi utili al contrasto di questo fenomeno, fra i quali ne vanno sottolineati per lo meno un paio da collegare con l’urgenza comunque inderogabile di mettere mano alle politiche attive territoriali. Da un lato, combattere l’inattività significa combattere al tempo stesso una battaglia contro il lavoro sommerso e parzialmente sommerso che ingloba più del 10% del mercato del lavoro italiano. La diffusione dell’inattività è evidentemente in relazione con la diffusione dell’economia non regolare: è anch’essa un frutto dell’opacità del mercato del lavoro e dei sui meccanismi di cooptazione. Il secondo elemento è apparentemente meno diretto ed è collegato a un’altra variabile dimenticata (la più dimenticata) del mercato del lavoro: le ore lavorate. La riduzione dei pro capite orari è stata nel corso degli anni lenta ma inesorabile (indipendentemente dalla crisi), ma è stata accompagnata da maggiori precarietà, informalità, riduzione dei diritti e del salario. Ma siccome la riduzione degli orari è una delle poche tendenze positive del nostro mercato del lavoro forse è il caso di rilanciarla, accompagnandola con misure che redistribuiscano lavoro dignitoso (e diritti, e reddito) oltre che aiutare a trovarlo.

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