Venerdì, 19 Aprile 2024

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Quel qualcosa in comune tra part-time e lavoro nero

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Vale la pena di fare qualche riflessione in più su alcuni dati relativi al mercato del lavoro riportati nell’ultimo rapporto annuale dell’Istat (www.istat.it/it/files/2015/05/Cap.3_RA2015.pdf). Riguardano il lavoro part-time e il lavoro irregolare, due argomenti a prima vista distinti – e in termini di principio lo sono – ma che in realtà finiscono col descrivere la stessa cosa: occupazioni e vite rese precarie da un mercato del lavoro cinico con chi è debole ma molto tollerante con chi è più forte, con buona pace dei numeri dei giocolieri del Jobs Act.

Veniamo al part-time. Il numero di occupati a tempo parziale è cresciuto assai negli ultimi anni, si può anzi dire che è l’unico pezzo di mercato del lavoro che nonostante la crisi – ma meglio sarebbe dire, grazie alla crisi – è in espansione. Nel 2014 oltre 4 milioni di occupati era part-time e cioè quasi uno su cinque. Sono circa 800 mila unità in più rispetto al 2008, il cosiddetto anno pre-crisi internazionale (da noi, come si sa, la stagnazione era in corso dagli anni ‘90) e oltre un milione in più rispetto al 2000. Letta in superficie, questa vicenda del part-time ci fa apparire per una volta almeno molto “europei”: nei paesi del nord Europa, dove più e meglio di noi hanno ragionato e fatto politiche per contenere l’orario di lavoro e distribuire meglio l’occupazione con salari dignitosi, il part-time è una realtà importante e da parecchio tempo. Nei paesi Ocse e nella stessa Ue il part-time è stato incentivato in quanto ritenuto strumento utile sia a combattere la disoccupazione sia a ridurre e redistribuire i tempi del lavoro mediando fra le esigenze delle imprese (flessibilità, adattamento congiunturale) e dei lavoratori (conciliare lavoro e tempi della vita quotidiana). Tutto bene dunque?

Qualcosa non deve essere andata nel verso giusto in quella mediazione, tanto che sia l’Ocse che l’Ilo (l’acronimo dell’Organizzazione internazionale del lavoro che per le Nazioni unite presidia i temi del lavoro) hanno da tempo lanciato l’allarme: “attenzione, il part-time fa bene sicuramente alle imprese ma per i lavoratori rischia di essere una trappola” perché non sempre è una scelta volontaria, perché comporta rischi di “segregazione” a causa della bassa qualità delle mansioni, delle scarse opportunità formative e della precarietà della posizione lavorativa. A questo si aggiunge il rischio delle malversazioni, ovvero la diffusione del falso part-time, cioè di rapporti di lavoro a tempo pieno mascherati da part-time con annessa evasione contributiva e fiscale e violazione dei diritti di quegli occupati: sia l’Ilo sia il Parlamento europeo hanno denunciato la diffusione di queste pratiche, di cui invece qui da noi si parla molto poco.

Il part-time italiano questi difetti ce li ha tutti. Per esempio, poco meno di un occupato part-time su tre non ha scelto volontariamente questa soluzione: è un ripiego in mancanza di una occupazione e di un salario a tempo pieno che non c’è. Nella media Ue l’involontarietà riguarda un occupato su cinque: nel nostro paese dunque il grado di involontarietà è molto elevato. D’altra parte, dal 2008 è cresciuta solo la componente involontaria del part-time (+1,3 milioni), mentre quella volontaria è addirittura diminuita di mezzo milione di unità. E presso gli “involontari” risultano accentuati alcuni tratti caratteristici: la maggiore incidenza fra i giovani, fra coloro che hanno titoli di studio più bassi, fra gli stranieri, nelle professioni meno qualificate e nei settori del commercio e dei servizi. Che il part-time sia cresciuto da noi negli ultimi anni grazie alla crisi si vede peraltro anche da un altro elemento: negli ultimi anni è aumentata soprattutto la componente maschile, con un +50% dal 2008 che ne ha portato a oltre un milione la consistenza complessiva. Come nota anche l’Istat il recente aumento è inoltre concentrato su formule di part-time con regimi orari molto bassi (vera e propria sottoccupazione) o vicini al tempo pieno: il lavoro nel fine settimana vede poi una fortissima concentrazione di occupati part-time, soprattutto involontari.

C’è poi il capitolo tutt’altro che irrilevante del falso part-time, ossia degli occupati a tempo pieno con un contratto a tempo parziale: secondo uno studio recente (http://www.istat.it/it/files/2014/09/IWP-n.-3-2014.pdf) un quinto dei contratti di lavoro part-time (fra i 500 mila e i 600 mila contratti) presso le imprese dell’industria e dei servizi nasconde occupazione a tempo pieno, e non per caso questa incidenza raddoppia proprio fra i maschi, la componente come si è visto più in crescita. È vero che il fenomeno riguarda in modo particolarmente acuto le piccole imprese e il Mezzogiorno, ma è anche vero che la sua incidenza presso le imprese medie e grandi e nel Settentrione è comunque rilevante. In media questi falsi part-time lavorano circa 10 ore alla settimana in più rispetto a quanto previsto dal loro regime orario contrattuale (cioè il 44% in più), un terzo delle quali non retribuite affatto e due terzi retribuite fuori busta (e dunque esentasse). L’imponibile contributivo evaso dai datori di lavoro si aggira nel complesso attorno ai due-tre miliardi di euro l’anno, corrispondenti a 5 mila euro per ciascun occupato (pari a un terzo circa dell’imponibile contributivo dichiarato).

Il part-time dunque ospita una territorio di confine fra lavoro sommerso e lavoro regolare: si tratta di una soltanto delle modalità con cui si declina il cosiddetto lavoro “grigio”, solo apparentemente in regola ma in realtà luogo di evasione parziale – e dunque più sicuro – di contributi e di diritti. Non sfugge infatti – e qui veniamo al secondo argomento – che le caratteristiche socio-demografiche degli occupati part-time, in particolare di quelli involontari e ancor di più quelle dei falsi part-time, siano molto simili a quelle degli occupati interamente sommersi: i giovani, le donne, i titoli di studio più bassi, gli stranieri, il Mezzogiorno. Se in media un occupato su dieci residente nel nostro Paese è completamente irregolare, in Calabria e Campania questa condizione riguarda quasi un occupato su cinque e fra gli stranieri uno su quattro. Comunque lo si voglia interpretare, è un dato davvero allarmante.

Anche in questo caso il soffermarsi (com’è giusto che sia) sulle punte dell’iceberg finisce però col creare stereotipi e impedire una visione completa del fenomeno: è infatti pur sempre vero che dei 2,3 milioni di irregolari stimati al netto dei lavoratori stranieri non residenti (i quali peraltro si aggiungerebbero quasi tutti al novero dei lavoratori in nero) oltre la metà sono uomini, quattro su cinque sono cittadini italiani, la metà appartiene alle classi di età centrali, più della metà lavora nel Centro-Nord, uno su sei ha frequentato l’università. Il fenomeno va dunque ben oltre le letture che lo dipingono come un fenomeno tipico della marginalità, legato a condizioni di degrado estreme: è un fenomeno invece generalizzato, che richiede dunque approcci e iniziative articolate, e sono anni che la Commissione Ue sottolinea l’emergenza del lavoro sommerso (non solo in Italia) e la sua natura eterogenea. La fotografia dell’Istat ne è una conferma: il mercato del lavoro irregolare viene perciò diviso in segmenti articolati in base alle mansioni, alle competenze, ai settori, alle specializzazioni. Ne emerge una visione della precarietà allo stato puro (cos’altro è una occupazione sommersa, specie quella dipendente) che esprime però una forte contiguità strutturale con la parte emersa dell’economia.

Il passo successivo, a quanto pare ancora da compiere, è allora quello di capire e quantificare le modalità con cui le attività svolte dalla componente non regolare dell’occupazione si intrecciano e si integrano con quelle svolte dalla parte regolare (e grigia) dell’economia, se non altro per sfatare il non detto che sta dietro all’inazione dei nostri governi sul tema del contrasto al lavoro non regolare: che una “seria lotta” (si dice sempre così, quelle fatte sin qui sono state evidentemente poco “serie”) avrebbe effetti depressivi sul sistema economico nel suo complesso. E occorre poi conoscere meglio il tema del lavoro grigio e delle occupazioni apparentemente regolari ma che in realtà coprono solo una parte della prestazione lavorativa mentre la parte restante è svolta al nero: l’incidenza del lavoro irregolare se fosse misurata in base alle ore lavorate invece che al numero di occupati potrebbe includere il lavoro grigio e risultare dunque ancora maggiore di quella attualmente misurata dall’Istat.

Sorprende sempre di fronte all’ampiezza di questi fenomeni così gravi l’inerzia che li avvolge. La lotta all’evasione fiscale e al lavoro nero valgono o non valgono di più dell’inutile accanimento contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? E il dibattito su questi temi non è forse più importante? Quel che è certo è che l’assenza di politiche attive del lavoro, specialmente in alcuni territori, è una delle cause principali della diffusione del lavoro irregolare. Nel rapporto annuale dell’Istat si mostra come uno stesso profilo individuale, definito in base all’età, al genere, al livello di istruzione, alla composizione familiare abbia un rischio di trovarsi a svolgere un lavoro irregolare che varia molto da regione a regione e che può essere molto basso nelle regioni dove i servizi per l’impiego funzionano meglio, mentre è particolarmente elevato nelle province caratterizzate dall’assenza di strutture a supporto dell’occupazione, dove perciò l’individuo è lasciato da solo ad affrontare il problema di trovarsi un lavoro, attraverso canali informali e certamente con una minore possibilità di esercitare i propri diritti di cittadino. Anche il solo riconoscimento di un reddito di base sarebbe un’utile grimaldello per cominciare a scardinare l’eversione del lavoro nero.

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