L’altra “bussola” a Nord-Est

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1. Statistiche al… lavoro

Ieri era il «modello vincente» per i cantori della stampa liberale e democratica, o «la più grande trasformazione in Italia degli ultimi decenni» per dirla con le parole dell’ex presidente Giorgio Napolitano, quand’era federalista.

Era un lustro fa, sembra passato un secolo.

Eppure nel 2015 l’epoca del mito (e delle fiabe) è tramontata per sempre. E i numeri del “modello Nord Est” sono tutt’altro che da circo. Basta sfogliare i dati ufficiali, scaricare i database pubblici, dare un’occhiata a rapporti più che attendibili.

Slide, istogrammi e tabelle riportano il trend della crisi, permanente, sistemica e patologica.

Dalla consueta relazione della Banca d’Italia al Barometro di Unioncamere Veneto, che evidenzia in rosso le cifre da default;

dalla Bussola di Veneto Lavoro, al saldo del numero anti-sucidio attivato dal governatore Luca Zaia che registra più di duemila chiamate.

La fotografia dell’economia veneta, cuore del “sistema Nord Est” è univoca. E, di fatto, un bollettino di guerra. Da Trento a Verona, da Vicenza a Padova, da Venezia a Treviso, da Udine a Trieste non si salva un distretto.

Calano (nonostante gli incentivi) i lavoratori nelle costruzioni (meno 3.547 in Trentino, 20.189 in Veneto, 4.239 in Friuli in cinque anni) e gli occupati nella manifattura (meno 2.960, 58.197 e 14.425), mentre risultano letteralmente “piallati” il settore del legno (-19%) e il comparto della moda (-16%).

L’industria in crisi, così come la Pmi - spina dorsale dell’economia locale - hanno bruciato 48 mila operai specializzati come registra il rapporto di Confindustria.

Non va meglio nel “settore primario”, almeno secondo i dati di Veneto Agricoltura mentre in Friuli rischia seriamente di scomparire il 50% della manifattura del territorio.

Anche il Trentino - regione speciale a vocazione… logistica - non funziona più come prima.

Scompaiono i piccoli imprenditori “sottodimensionati”, ma arrancano anche i marchi storici nelle mani dei capitani coraggiosi

In compenso la crisi non ha fermato la corruzione, sottolineano alla Procura di Verona e i cantieri delle piccole e grandi opere continuano a essere luoghi mortali in tutti i sensi.

 

2. Le vere Grandi Fabbriche

Posto che perfino l’originale «modello veneto» targato Democrazia Cristiana possedeva – almeno potenzialmente – un’alternativa “popolare” già dieci anni fa era più che evidente il prodotto dello “sviluppo grigio

Non solo in termini di devastazione territoriale, ma perfino nel “link” fra economia e corruzione  vicendevolmente alimentate dall’amministrazione degli “eletti”.

Così oggi a Nord Est ci si può sempre far cullare dalle raffinate analisi dell’omonima Fondazione nella volontà di trovare un pertugio di uscita dalla Grande Crisi che ha disvelato la fragilità delle mitologie.

L’impaludamento del Veneto post-berlusconiano combacia, però, con il declino irreversibile del capannone “metal-mezzadro” all’ombra del campanile quanto dell’impresa formato famiglia che si perpetua di padre in figlio.

Emblematico il “paradigma Benetton”: da marchio internazionale dell’abbigliamento a holding con la vocazione alle concessioni autostradali. Altrettanto sintomatica è la nicchia “industriale” della logistica che da Trieste fino a Verona annichilisce l’idea stessa di manifattura, perché basta (e avanza) far viaggiare o stoccare merci. Perfino il settore primario si è ormai piegato: “coltivazioni” fotovoltaiche e impianti energetici “europei” sono un orizzonte più redditizio della produzione naturale…

Così in Veneto alla certezza del salario corrisponde la Pubblica Amministrazione: le statistiche 2011 contabilizzavano 227.647 dipendenti pubblici: 77.249 nella scuola; 61.223 nei servizi socio-sanitari; 35.127 negli enti locali; 17.047 nelle forze di polizia e altri 11.712 nelle forze armate.

Un… esercito che lavora lontano dai riflettori, che non fa notizia, ma che incarna la res publica. Clamoroso il caso dei medici: 12.291 (su 109.170 in tutt’Italia) in Trentino, Veneto e Friuli.

Ecco le sole, vere Grandi Fabbriche: il “modello veneto” conta oltre 92 mila dipendenti nelle Usl e nelle Aziende ospedaliere integrate con le Università. E questa è la mappa più aggiornata reparto per reparto…

Padova rappresenta al meglio la transizione dall’ideologia industrialista alla “sussidiarietà”. Era la capitale finanziaria del Nord Est con Cassa di risparmio e Banca Antoniana; aveva incardinato fin dagli anni ’50 la Zona Industriale in una legge dello Stato; sfornava innovazione con il Cerved di Mario Volpato e con le ricerche applicative dell’Università.

Oggi sopravvive grazie alla sanità (due ospedali, l’Istituto oncologico veneto e la vecchia struttura dei Colli) e al suo “indotto” che alimenta l’intesa fra ciellini e Legacoop. L’altra Grande Fabbrica – altrettanto incistata dalle fraternità - è l’Ateneo: di nuovo “eccellente” nella propaganda e magnificamente devoto all’opacità. Nel palazzo del Bo si gestisce un bilancio annuale da 575 milioni di euro con 2.088 docenti (fra professori e ricercatori) più 2.197 dipendenti tecnico-amministrativi al servizio di 57.745 studenti compresi i fuori corso.

 

3. Le ombre delle mafie

Un paesaggio di ombre. Potremmo definire così il panorama delle presenza mafiose in Veneto. Le inchieste giudiziarie «made in Veneto» rimangono poche e un solo procedimento – dopo il processo alla banda Maniero – si è concluso con condanna per il reato di associazione mafiosa, il 416 bis. Eppure la Dna avverte: «La sempre più significativa operatività in Veneto, di gruppi criminosi originari del sud Italia […] tende a diventare sempre più stabile».

Stabile, ma sconosciuta visto che, in particolare della 'ndrangheta – di cui in altre regioni del nord si sono rivelate ramificazioni e presenze anche nel dettaglio – si sa ancora molto poco. A rischiarare un po' le tenebre le inchieste provenienti da altre regioni, come quella emiliana che ha illustrato gli interessi di una cosca cutrese per gli affari urbanistici veronesi e l'«aggancio», tramite un industriale veronese bene introdotto, del sindaco Flavio Tosi e del suo vicesindaco Vito Giacino (già nei guai per altre vicende). O le minacce subite da Gianfranco Bettin, assessore del Comune di Venezia, in seguito alle sue denunce sulla situazione del Tronchetto, isola lagunare, dove il controllo del flusso turistico è appannaggio della criminalità autoctona e non solo (https://giannibelloni.wordpress.com/2014/12/19/cosa-ce-di-meglio-del-tronchetto-per-le-mafie/). 

  O la richiesta

(vedi qui http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/03/31/mafia-bindi-infiltrazioni-verona-commissione-accesso-comune/1555019/)

formulata dalla Commissione parlamentare antimafia perché venga istituita la commissione d'accesso al Comune di Verona, di fatto l'anticamera dello scioglimento per infiltrazioni mafiose, per una serie di «incroci» - soprattutto sul terreno scivoloso dell'urbanistica - tra l'amministrazione scaligera e le strategie delle cosche calabresi

(vedi qui http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/01/mafia-verona-inchieste-inguaiano-tosi-i-suoi-bindi-evoca-scioglimento/1555697/).

Piccoli squarci che fanno intravvedere la «stabilizzazione» di alleanze tra criminalità organizzata, pezzi dell'imprenditoria, del mondo delle professioni e schegge della politica veneta, con l'obiettivo di consolidare circuiti di economie protette dove prosperare tra favori, corruzioni e politiche addomesticate.

 

(*) giornalisti veneti. Belloni coordina l’Osservatorio Ambiente e Legalità del Comune di Venezia

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