Un manuale contro il sovranismo: “Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea”, di Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo, Mariana Mortagua (Rosemberg&Sellier, pag160, Euro 14), è sì un libro di economia politica, ma soprattutto può essere uno strumento per chi voglia contrastare (e sconfiggere) la propaganda della nuova destra e riconquistare i cittadini alle ragioni di un’Europa il cui edificio è stato minato prima di tutto dalle colpe – tutt’altro che inconsapevoli - dei suoi “progettisti”. E’ naturalmente un libro in cui si parla molto di economia, in cui ci si misura con le sue scuole, le sue accademie e le diverse interpretazioni della congiuntura e della crisi; e, per questo, può sembrare un libro complicato. Ma se non ci si lascia imprigionare dai particolari di formule e citazioni, andando all’essenza del discorso, è un lavoro di straordinaria chiarezza; perché al di là del titolo-quesito (sarà un’ossessione giornalistica, ma un punto interrogativo uccide qualunque titolo) gli autori offrono un’interpretazione ben precisa del marasma in cui siamo immersi e fanno chiarezza con un’opera didattica da consigliare soprattutto a chi ha ancora voglia di trovare le argomentazioni per battersi contro le paure e i fantasmi del presente e a chi intende assumersi la responsabilità della trasformazione dell’esistente, in particolare a chi pretende d’indirizzarla facendosene gruppo dirigente. Evitando battaglie di sola propaganda – in cui lo spirito dei tempi della semplificazione nazional-populista ha sempre la meglio – o di principio, perché i principi (e i valori) vanno benissimo ma senza gli argomenti sono impotenti.
Bellofiore, Garibaldo e Mortagua hanno in testa una convinzione profonda: uscire dall’Euro o dall’Ue non serve a nulla, anzi può solo che peggiorare la situazione. Per dimostrarlo fanno un passo a ritroso – ed è questo uno dei punti di forza del loro lavoro - andando alle cause della crisi, che non sono tanto economiche, quanto politiche, conseguenza di scelte e disegni precisi. In sintesi, ricostruiscono il quadro storico di una critica dell’economia politica neo-liberista, per dirla marxianamente.
A partire dalle radici profonde dell’ultima grande crisi - che affondano nella natura stessa del neoliberismo (che sta al liberismo come il sovranismo sta al nazionalismo) – in quello “sciopero del capitale” che attraverso il sacrificio del lavoro e la compressione dei salari, sfocia nell’economia del debito, nel consumatore indebitato, nel capitalismo che si finanzia indebitando le famiglie e inglobandole nel sistema finanziario. Quella finanziarizzazione che gli autori preferiscono chiamare “sussunzione reale del lavoro alla finanza”, cioè dipendenza dei lavoratori e delle famiglie a basso reddito da borsa, banche e bolle speculative. In altre parole il neoliberismo si distingue nettamente dal liberismo perché è una costruzione politica – talmente egemonica da spacciarsi per stato di natura - che mette lo stato e i governi al servizio del capitale, che “inventa” prodotti finti e tossici, rendendo cruciali le relazioni finanziarie. Parallelamente – tra gli anni ‘90 e gli esordi del XXI secolo - cambia profondamente il quadro industriale, in particolare in Europa, assumendo un assetto transnazionale, con una nuova centralità tedesca che si dirama in reti e filiere a est e a sud: una “fabbrica” semicontinentale, una sorta di mitteleuropa allargata con ruoli ben assegnati e subalternità precise plasmate sulle necessità tedesche. Con gli squilibri commerciali che ne derivano ma che non giustificano l’interpretazione secondo cui la crisi dell’euro nasce dagli andamenti delle bilance dei pagamenti e dalle partite correnti.
Bellofiore, Garibaldo e Mortagua, nel dibattito tra scuole economiche, vogliono distinguersi sia dall’interpretazione ortodossa che da quella eterodossa, dai neolibersiti come dai neokeynesiani e se le politiche d’austerità rischiano di produrre ciò che vorrebbero evitare (la fine dell’Euro e dell’Ue, magari non un repentino crollo ma un progressivo evaporare), la soluzione non sta nemmeno in semplici politiche di aumento della spesa pubblica. Tantomeno la soluzione può arrivare da un’Europa a due velocità e dall’uscita di alcuni paesi dall’euro, non essendo la moneta la ragione della crisi (semmai, su questo piano, lo sono più la gestione del credito); anzi, gli autori illustrano e motivano perché con “l’exit” i rischi di nuove austerity non diminuirebbero ma crescerebbero.
Con questo impianto analitico “Euro al capolinea?” non può che concludere che non esistono soluzioni tecniche miracolose, mentre urgerebbe la cosa più difficile e impegnativa, una scelta politica di carattere generale che affronti i nodi strutturali del problema. Gli autori invocano un cambiamento radicale nel modo di affrontare le emergenze in cui siamo immersi (economiche, sociali, politiche e culturali), un progetto globale contro il neoliberismo, partendo dalla presa d’atto che non si può più ragionare in termini nazionali, che l’orizzonte deve essere perlomeno continentale e che su questo livello vanno messe in campo una serie di misure che costituiscano l’asse di una nuova Ue: un’autentica unione bancaria e fiscale, un aumento degli investimenti pubblici per un forte intervento a favore dell’offerta e della struttura produttiva, un riallineamento (verso l’alto) dei salari. Un New deal “qualitativo” in cui il soggetto pubblico (gli stati, la comunità europea) “intervengano su cosa, come e quanto produrre, facendosi occupatori diretti della forza lavoro”. Se non è una rivoluzione, poco ci manca. Per farla servirebbe il combinato disposto di una mobilitazione “dal basso” transnazionale con un nuovo governo “dall’alto” sulla struttura della domanda, della produzione e della distribuzione. Una nuova alleanza tra masse ed élite, l’opposto dell’attuale collasso della democrazia.
Un auspicio finale talmente “alto” e sognante da stonare con il rigore dell’analisi che lo genera. Gli stessi autori ne sono consapevoli e perciò si affidano, per concludere, a una citazione di Musil sul senso della possibilità, laddove “un consapevole utopismo non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione”.
Ps: In appendice uno degli autori (Riccardo Bellofiore) propone cento tweet sulla crisi - “in omaggio all’epoca”, spiega -, traduzione contemporanea delle voluminose “tesi” proprie della tradizione del movimento operaio. Scelta arguta e in linea con il taglio didattico dell’intero volume. Tra i cento “pensierini” (in realtà alcuni vanno un po’ oltre i 280 caratteri del social svolazzante) ecco quello che sembra più evocativo dell’impianto analitico e delle intenzioni di questo lavoro. E’ il numero 95: “… Viviamo in un mondo che è quello che riproduce su scala globale il capitalismo britannico di metà Ottocento in presenza di un movimento operaio come quello inglese di inizio Ottocento. Quel capitalismo che si colloca sul ‘mercato mondiale’; quel capitalismo in cui il movimento operaio (oggi, ma anche allora, dovremmo dire: dei lavoratori e delle lavoratrici) non era un dato, era una costruzione dal basso: quel capitalismo che ‘formava’ la classe operaia inglese integrando estrazione di plusvalore relativo e plusvalore assoluto (…). Un ritorno al passato che è il nostro futuro e che è la vera novità del capitalismo dei nostri giorni: le nuove forme del vecchio sfruttamento”.