Le ragioni dei lavoratori per un'altra politica economica

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Cgil, Cisl e Uil manifestano il 9 febbraio per chiedere una modifica radicale nella politica economica del governo. Le ragioni della protesta dei lavoratori sono numerose. A ben vedere, infatti, la manovra economica del governo per il 2019 ha deluso le aspettative di rilancio della crescita e dell’occupazione, nonché di miglioramento delle condizioni del lavoro. La manovra del governo, dopo tanti annunci, infatti, non presenta un profilo espansivo ed è ambigua proprio nelle misure di bandiera del governo: il reddito di cittadinanza, “quota 100” e la flat tax. In sostanza, il “governo del cambiamento” mostra di non riuscire a imprimere la svolta di politica economica e sociale attesa dai lavoratori italiani e chiesta dal movimento sindacale.

Per cominciare, la manovra del governo non ha realizzato una svolta nella politica delle finanze pubbliche e per questa ragione non riuscirà a imprimere alcuna accelerazione all’economia italiana.

Negli anni scorsi i ripetuti tagli della spesa pubblica e i continui avanzi primari (cioè gli eccessi del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, al netto degli interessi sul debito) - per i quali dagli anni ’90 l’Italia detiene il primato in Europa come Paese più rigorista e austero - hanno arrestato il passo dell’economia italiana e di tutti quei Paesi europei che sono stati forzati a praticare l’austerità (il caso della Grecia è il più tristemente esemplare). Gli impatti negativi delle politiche di austerità sulla domanda di merci e servizi delle famiglie e delle imprese hanno moltiplicato le crisi aziendali e acuito la depressione. L’assenza di adeguati aiuti alle imprese e gli insufficienti ammortizzatori sociali hanno fatto il resto. La contrazione della crescita ha anche retroagito negativamente sulle entrate fiscali, non permettendo nemmeno di acquisire i risultati di risanamento delle finanze pubbliche, e in particolare di abbattimento del rapporto tra debito pubblico e pil, che costituivano gli obiettivi principali di quelle manovre. In fin dei conti, il carattere recessivo delle politiche di austerità definite dai Trattati europei in questi anni ha accresciuto il divario tra centri e periferie in Europa, aumentando la disoccupazione nelle aree periferiche, alimentando processi migratori socialmente costosissimi, e rendendo sempre più diseguale la distribuzione dei redditi in Italia e sull’intera scala europea.

Purtroppo, pur mostrando qualche consapevolezza di questo scenario, il governo ha scontato un grave deficit di capacità politica nel confronto con l’Europa e in particolare con la Commissione Europea. Alla luce delle critiche levatesi sul piano internazionale verso le politiche di austerità, anche da parte di forze politiche e attori istituzionali che in passato le avevano sostenute con energia (come nel caso del Fondo Monetario Internazionale), il governo avrebbe potuto intraprendere un’azione politica, finalizzata a creare un consenso intorno ad alcune prime ipotesi emendative del quadro di regole europee, come ad esempio lo scorporo degli investimenti dai vincoli di finanza pubblica e l’emissione di eurobond con cui finanziare interventi infrastrutturali nelle regioni in ritardo di sviluppo. Lungi dal muoversi lungo questa direzione, il governo ha invece presentato alla Commissione Europea una manovra incentrata intorno ad un aumento della spesa corrente e dei trasferimenti – e non già sugli investimenti pubblici e le politiche industriali – dalla scarsa capacità espansiva e aumentando il deficit al 2,4% del pil. Successivamente, il governo è addivenuto a un compromesso al ribasso con la Commissione Europea al fine di evitare la procedura sanzionatoria, riducendo pressoché interamente la capacità espansiva della manovra e contenendo il deficit al 2% del pil.

Alla fine dei conti, nel confronto tra i dati di fine 2018 e quelli previsti dal governo per il 2019 non si registra sostanzialmente alcun cambiamento nei dati fondamentali della finanza pubblica. Infatti, secondo le previsioni del governo a fine 2019 il deficit dovrebbe attestarsi al 2% del pil e l’avanzo primario intorno all’1,8% del pil. Si tratta di valori pressoché coincidenti con quelli attesi per fine 2018. Dove sta dunque il cambiamento sul tema della finanza pubblica rispetto al passato? Dov’è la rottura con le politiche di austerità? La conclusione è che si è fatto molto rumore per nulla e l’impatto della manovra sull’economia italiana sarà nullo.

L’inefficacia della manovra del governo rispetto alla crescita e all’occupazione non dipende solo dal ridotto volume del deficit ma anche dalla composizione della manovra, che si caratterizza per l’assenza di una qualunque strategia di politica industriale, in grado di rilanciare la competitività del sistema produttivo del Paese.

In effetti, come è emerso anche da una recente indagine sviluppata dalla Consulta economica della FIOM-CGIL, il Paese sconta un gravissimo ritardo di competitività rispetto alla media europea. Il sistema produttivo italiano continua a essere caratterizzato dalla presenza di imprese mediamente troppo piccole, che investono pochissimo in ricerca e nuove tecnologie, che non puntano sulla formazione del personale e in generale sulla qualità del lavoro, privilegiando generalmente una ricerca della competitività basata sulla compressione dei costi di produzione e dei diritti. Un sistema di imprese che inoltre si muove in un contesto territoriale scarsamente dotato di infrastrutture materiali e immateriali, soprattutto nel Mezzogiorno. I caratteri del sistema produttivo italiano e l’inadeguatezza infrastrutturale costituiscono le ragioni di fondo dell’asfittica dinamica della produttività del lavoro, che si attesta su valori più bassi della media europea e in particolare di Germania e Francia.

D’altra parte, non è certo un caso che il Paese sia ancora lontano dai livelli di produzione registrati alla fine del 2007, prima dello scoppio della crisi, e che la produzione nazionale costituisca una frazione decrescente della produzione complessiva europea, così come non è un caso che pure la quota italiana nel commercio internazionale sia in progressivo calo. Un declino a cui corrisponde un deterioramento sociale che si sostanzia nella crescita delle disuguaglianze, dello sfruttamento e dei fenomeni di emarginazione sociale. Si tratta di problemi che nel Mezzogiorno assumono un carattere spiccatissimo, condannando un’area così vasta d’Italia a un futuro di ulteriore crescente marginalità e fornendo un’indicazione precisa sul futuro che attende l’intero Paese in assenza di una svolta radicale nelle politiche economiche.

La condizione di grave difficoltà del sistema produttivo italiano è in buona misura il portato del gigantesco disimpegno pubblico sperimentato negli anni dell’austerità, e in particolare del sottofinanziamento degli investimenti pubblici diretti e degli aiuti alle imprese. A ben vedere, infatti, gli investimenti pubblici complessivi sono crollati dopo la crisi registrando costantemente valori inferiori alla media europea in termini di spesa sul pil. La differenza rispetto ai nostri partner europei è anzi incrementata, visto che se nel 2007 spendevamo tre decimi di punto in meno rispetto agli altri, nel 2017 gli investimenti pubblici italiani si sono fermati al 2% del pil contro il 2,7% della media europea, mentre ad esempio in Francia raggiungevano il 3,4% del pil e la Germania aumenta gli investimenti del 15%. Per avere una misura corretta del sottofinanziamento degli investimenti pubblici italiani si pensi che per raggiungere la medesima quota europea degli investimenti sul pil l’Italia avrebbe dovuto spendere 12 miliardi in più nel solo 2017, e addirittura 21 miliardi in più se avesse voluto raggiungere il livello francese.

Dal punto di vista degli incentivi alle imprese il sottofinanziamento italiano degli scorsi anni risulta ancora più grave. Dal 2007 ad oggi l’Italia ha ridotto significativamente gli aiuti alle imprese, mentre la media dei paesi europei, la Francia e soprattutto la Germania li hanno considerevolmente aumentati. Nel 2017 la spesa italiana è risultata meno di un terzo della media europea. Infatti, lo Stato ha speso solo lo 0,22% del pil per aiuti e incentivi alle imprese, contro lo 0,69% della media europea. Contemporaneamente, la Germania ha speso addirittura sei volte in più rispetto all’Italia, portando gli aiuti alle imprese all’1,3% del suo pil. Se avesse voluto raggiungere la medesima quota europea degli aiuti di Stato sul Pil, l’Italia avrebbe dovuto spendere 7,9 miliardi in più, e addirittura 18 miliardi in più se avesse voluto raggiungere lo standard tedesco.

A cospetto di una situazione così grave nella manovra economica per il 2019 il governo “del cambiamento” non ha prodotto alcuna proposta organica di politica industriale, né c’è uno sforzo sul piano delle risorse. Nella prima versione della manovra economica, inviata alla Commissione Europea, veniva indicato solo un ridottissimo incremento degli investimenti pubblici, pari a circa lo 0,2% del pil. Nella seconda e definitiva versione della manovra, anche questo lievissimo incremento degli investimenti risulta sostanzialmente azzerato e in particolare vengono tagliate le risorse a favore del Mezzogiorno, e ciò non potrà che allargare ancora il divario con il Centro-Nord. Mentre è chiaro che un nuovo piano di politica industriale dovrebbe prendere le mosse proprio dal Mezzogiorno. D'altronde gli studi dimostrano che l’impatto sulla crescita di investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno sarebbe particolarmente elevato e altrettanto elevato sarebbe l’impatto occupazionale, non solo sul Mezzogiorno ma sull’intero Paese dal momento che la spesa nel Sud attiva una domanda che in larghissima parte si rivolge proprio alle imprese del Centro-Nord.

Il contenimento del deficit ai medesimi valori del 2018, l’assenza di un disegno di politica industriale, il sottofinanziamento degli investimenti diretti infrastrutturali e degli aiuti alle imprese, azzera qualunque velleità espansiva della manovra economica per il 2019. D’altronde, lo stesso governo ha ridotto la previsione di crescita da un iniziale 1,5% a un modesto 1% e, dopo che il pil ha registrato il segno negativo negli ultimi due trimestri del 2018, è pressoché certo che nemmeno questo obiettivo verrà raggiunto.

D’altra parte, l’opposizione del movimento sindacale riguarda anche il contenuto sociale della manovra del governo. In particolare, le critiche si appuntano sul tema dei diritti, quello degli ammortizzatori sociali e anche sugli interventi principali previsti dal governo, relativi al reddito di cittadinanza, alle pensioni e alla flat tax. Ha proprio ragione Maurizio Landini: il punto di fondo è che il governo, anche a causa di una sostanziale assenza di confronto con le organizzazioni sindacali confederali, propone uno schema di politica economica e sociale privo di una reale consapevolezza delle condizioni sociali effettive del lavoro in Italia.

Negli anni passati l’unica vera misura per rilanciare la competitività italiana, in presenza di austerità e sottofinanziamento pubblico, è stata la precarizzazione delle condizioni del lavoro e la moderazione salariale ricercata con una crescente deregolamentazione del mercato del lavoro. In altre parole: la crescente flessibilità del mercato del lavoro. Questa è stata la direzione di marcia seguita in tutti questi anni, dal Pacchetto Treu sino al Jobs Act. E tuttavia, anche questa politica, dagli elevatissimi costi sociali, sempre criticata dai sindacati, non ha prodotto alcuna accelerazione alla produttività del lavoro e ha accompagnato il declino italiano. D’altronde, come conferma un recente studio pubblicato da economiaepolitica.it, in Italia la crescita è principalmente trainata dai salari, cioè è tanto più marcata quanto più è elevata la quota dei salari sul pil. Da tutto ciò risulta confermato che il problema di competitività del tessuto produttivo italiano non è connesso alle regole del mercato del lavoro o alla dimensione dei salari.

Ci si sarebbe dunque aspettati un intervento che ripristinasse i diritti ingiustamente cancellati, che ricomponesse un mercato del lavoro irrazionalmente frammentato, che ridesse garanzie ai giovani, anche per il futuro pensionistico, che infine assicurasse un pavimento ai salari garantendo l’applicazione dei minimi previsti dai contratti nazionali. Ma la manovra economica del governo si guarda bene dal fare aperture in questa direzione.

Né il governo sembra avere compreso il ruolo degli ammortizzatori sociali, indispensabili per non disperdere professionalità e competenze in presenza di crisi industriali o rallentamento dell’attività lavorativa. I dati ufficiali dimostrano che anche gli ammortizzatori sociali sono ampiamente sottofinanziati in Italia rispetto alla media europea. Stando agli ultimi dati disponibili, l’Italia spende circa lo 0,9% del pil contro una media europea di circa l’1,5%. Su questo capitolo di spesa mancano ben 10 miliardi rispetto alla media europea. Ma nella manovra del governo per il 2019 non vi è alcuno sforzo sul versante degli ammortizzatori sociali.

Anche le misure principali introdotte dal governo raccolgono critiche tra i lavoratori. L’introduzione del reddito di cittadinanza può essere apprezzata per la volontà di finanziare maggiormente gli interventi a favore dei ceti meno abbienti del Paese. Ma la misura presenta un carattere ambiguo ed è scarsamente efficace. Il punto centrale nelle critiche rivolte a questa misura riguardano il fatto che essa cerca contemporaneamente di garantire un reddito minimo e uno sbocco lavorativo ai suoi percettori. Ma quest’ultima gamba della misura passa per un investimento massiccio nei centri per l’impiego nella convinzione, del tutto erronea e per molti aspetti risibile, che la mancanza di opportunità di lavoro dipenda dal malfunzionamento dei centri stessi. Ben poco successo avrà in tal senso l’introduzione del reddito di cittadinanza, considerato che non vi è alcuna politica diretta a incrementare la base occupazionale del Paese. Sotto questo aspetto, l’intervento massiccio previsto per i centri per l’impiego appare per molti aspetti come uno spreco ingente di risorse. Al contrario, sarebbe stato più efficace riprendere e finanziare maggiormente il reddito di inserimento (REI) da poco introdotto in Italia.

Di una insufficiente consapevolezza delle dinamiche sociali effettive viene anche accusata l’introduzione della “quota 100”, che è ben lungi dal rappresentare un radicale smantellamento della riforma Fornero. Anche qui, la critica non riguarda certo il fatto che possa essere velocizzata l’uscita pensionistica di alcuni lavoratori che hanno accumulato molti anni di contributi. Ma il carattere della misura introdotta non tiene assolutamente conto di alcune gravi questioni che differenziano le necessità dei lavoratori italiani. L’intervento in questione, infatti, non prende atto che le condizioni del lavoro sono significativamente diverse e che alcuni di lavori sono particolarmente usuranti, per i cui i tempi di uscita andrebbero opportunamente differenziati. Né si tiene conto della condizione femminile, né del fatto che i lavoratori del Mezzogiorno sono penalizzati rispetto agli altri in termini di anni di contribuzione, né della drammatica condizione dei giovani, che per i valori elevati della disoccupazione giovanile e la frammentarietà dei rapporti di lavoro, stanno accumulando livelli di particolarmente bassi di contributi. Insomma, l’introduzione di “quota 100” è ben lungi dal rappresentare una riforma organica e complessiva del sistema pensionistico che è invece chiesta a gran voce dal mondo del lavoro.

Va inoltre sottolineato che queste misure non vengono finanziate mediante l’apertura di una stagione di lotta all’evasione fiscale, che continua vergognosamente a pesare sul pil a livelli del tutto sconosciuti nel resto di Europa. L’apertura di una seria lotta all’evasione, resa sempre più agevole dalle nuove tecnologie, è da sempre chiesta dalle organizzazioni sindacali e avrebbe consistenti vantaggi. Essa, infatti, consentirebbe di lasciare libere le risorse per le politiche industriali e gli interventi infrastrutturali, e introdurrebbe elementi importanti di equità sociale. Ma il governo guarda invece altrove, considerato il neo-condono definito eufemisticamente “pace fiscale”, e anche la flat tax, con la quale si introduce un regime fiscale palesemente ingiusto, considerata la pressione fiscale che grava sui lavoratori dipendenti.

Le ragioni qui richiamate sono sufficienti a comprendere che il “governo del cambiamento” propaganda un cambiamento di apparenza e non di sostanza, dal momento che non rompe con le politiche di austerità del passato e non propone una modifica delle condizioni sociali e del lavoro. Buone ragioni per mobilitarsi – il 9 febbraio e non solo - per una politica economica orientata seriamente verso il cambiamento economico e sociale e verso un rilancio della competitività del Paese.

 

*Coordinatore della Consulta economica della FIOM-CGIL

 

 

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