“Non ho l'età” di Loris Campetti è un’inchiesta diretta su un aspetto di solito non indagato della disoccupazione in Italia: si tratta questa volta non degli spazi chiusi ai giovani, ingabbiati in generale nel precariato, ma di quel che accade a chi perde il lavoro in età avanzata, dopo anni di mestiere con una professionalità compiuta. Sono figure meno pittoresche dei ragazzi, non portano con sé nuove culture, ma non suscitano minore emozione. È un’inchiesta di questi anni, a crisi ormai settennale se se ne calcola l’inizio a partire da quella dei subprimes nel 2008. In quella tempesta sono scomparsi secolari opifici, antiche ditte, sostituite in genere da imprese nuove e più deboli, rilevate da qualche tardivo acquirente. Insomma la crisi investe la struttura produttiva, “i padroni”, che alla fine cercano di vivere o sopravvivere. Ma nell’uragano volano soprattutto gli stracci, che raramente sono rappresentati dal proprietario delle aziende ia via ammalate e a un certo punto chiuse. È la prima conseguenza e se l’imprenditore è un furbastro magari se la cava, mentre non se la cavano mai i dipendenti che, sbattuti da una proprietà all’altra, alla fine non hanno neppure la forza di galleggiare. Sono generalmente ignoti (chi conosce i proletari?) che la ricerca di Loris Campetti fa emergere per il tempo di questo libro.
Emergono in genere poco volentieri. Quel che li caratterizza, salvo qualche indomito o indomita combattente, è la paura. Hanno già perduto un posto, e non per colpa loro ma perché è svanita o delocalizzata la ditta, potrebbero perdere anche quelli cui si rivolgono speranzosamente offrendosi come forza di lavoro. Sembra quasi scritto che prima o dopo tutti perderanno anche queste nuove possibilità, che al primo licenziamento parevano a portata di mano. Ma poi via via precipitando da un’interruzione di lavoro all’altra,
gli stracci volano più che mai. La paura nel disoccupato si accresce fino a rifiutare di discorrere con il giornalista che gli chiede di parlare di sé: no, assolutamente, grazie. O, al massimo, se lo fa, rimanendo nell’anonimato. Sono uomini e donne che, perduto il primo loro impiego, via via che il tempo passa nell’attesa di qualche impiego successivo, temono di essere in qualche misura riconosciuti, se non schedati, e di perdere quindi anche quello.
La disperazione non solleva, se non in rari casi, la ribellione. Dalla paura passano a una rassegnazione infelice; e questo sia gli uomini che le donne, le prime queste ad essere colpite quando si tratta di tagliare gli impieghi. E tuttavia nell’inchiesta di Campetti è proprio una donna, una single indiana che ha diretto una volta la lotta di quasi duecento connazionali, e quindi è una tosta, a raccontare lungamente di sé, a far nomi, a nulla nascondere: la ultracinquantenne Goghi. La cui vicenda le comprende quasi tutte, come quella di chi ha cominciato – se non sbaglio – in una fungaia, poi licenziata per chiusura dell’azienda e avanti così per altri due licenziamenti da una fabbrica chimica e da una metalmeccanica; o di chi si è presa un diploma di grafica e da allora è saltata da una unità di produzione all’altra, fino a rinunciare alla propria qualifica e offrirsi come tata di un bambinetto - la sola occupazione della quale c’è sempre abbondanza, ed è pagata assai poco.
Chi è da temere? La paura è vaga. Responsabile della tempesta è la famosa crisi, ma in generale i suoi manovratori sono lontani. Più semplice individuare la responsabilità in qualche eletto dalle istituzioni locali o dallo Stato; il personaggio più detestato essendo non il ministro Poletti o il team del governo promotore del Jobs act, ma la malvagia Elsa Fornero, che prima dell’attuale compagine era ministro del lavoro per Mario Monti, e sembra la figura delegata a raccogliere risentimenti e perfino odio. Non è più presente nella scena politica ma ha lasciato una impronta indelebile peggiorando tempi e modi della pensione: e si può capire che chi si trova a non poter raccogliere nulla da una vita di lavoro per una scadenza non potuta rispettare, magari
per soli ventotto giorni, lo trovi inaccettabile e si infuri se appena ha il temperamento per farlo. Ma rare sono le Goghi con un’esperienza di lotta, molti di più i maschi reticenti. Alla paura di segnalarsi come un agitatore e quindi precludersi ogni sbocco lavorativo, nei più si sostituisce il senso di colpa: “Forse avrei dovuto farcela e non ce l’ho fatta, forse dovevo impuntarmi. Dovevo essere io a provvedere ai miei figli mentre non sono stato capace neppure di provvedere a me stesso”. Quelli che parlano sono raramente combattivi, ormai vengono da infinite trafile, e non hanno più animo di tenere. Perché al generale scarso interesse per le disgrazie altrui, alla introiettata abitudine di considerare che la perdita del lavoro, e persino dell’azienda che lo erogava – una specie di sorte necessaria, un destino impossibile da evitare – si aggiunge la fatica personalmente provata nelle lunghe anticamere e nelle speranze deluse nel corso della vita personale. Gli interpellati di questo volume non sono dunque quelli cui è dedicata la maggior parte delle inchieste scritte e televisive, dato che sono persone con più di 45 o 50 anni. Età fatale, perché ti senti dire, quando domandi un impiego, che sei troppo vecchio (e forse anche tu ti senti tale davanti ai figli o ai nipoti, tutti precari); ma anche paradossale, perché se chiedi di accedere alla pensione, ti si obietta che sei troppo giovane. La prima obiezione è scagliata preferibilmente contro le donne: “Ma che vuoi, non ti vedi? Sei vecchia”, settore regolarmente debole della manodopera. La seconda è scagliata contro tutti, maschi e femmine, lasciati per strada sempre per colpa della signora Fornero dalle ditte più o meno temporanee che hanno rilevato la proprietà della prima cui devi il licenziamento. Da 45 anni, o 50, al diritto alla pensione piena ci vuole un tempo enorme, ormai 17 anni, che sembra un periodo infinito, la traversata di un deserto al posto del sogno deluso del disoccupato. La durezza della prima obiezione viene rinviata quasi obbligatoriamente alla necessità propria dell’impresa di avere una manodopera più fresca e meno scafata alle lotte; quella della seconda obiezione è propria dello Stato, cui non mancano mai ragioni per essere in difficoltà a pagare una crescente spesa sociale (va’ a vedere poi chi paga realmente i contributi per un lavoratore che era a tempo indeterminato al primo o secondo impiego, trenta anni fa). La già ricordata Goghi di anni di lavoro ne ha fatti trenta, ma ne valgono solo i quindici coperti dagli oneri sociali pagati in gran parte anche da lei, e quindici non bastano per aver diritto a una pensione. E c’è un’altra donna che si vergogna a confessare che non potrà usufruire dell’opzione donna per ottenere l’agognata pensione, alla figlia che pure è riuscita da sola a fare studiare fino a diventare architetto paesaggista.
Alla frustrazione economica che non è da poco, specie trovandosi sulla soglia della vecchiaia e spesso non in buone condizioni di salute come chi ha lavorato immerso nell’amianto, se ne aggiungono altre: non hai solo perduto dei soldi su cui contavi, ma hai perduto di fronte a te stesso e agli altri “identità e dignità”. Almeno fin qualche tempo fa chi aveva lavoro aveva una figura sociale riconosciuta. Era pesante svegliarsi al mattino presto e lavorare alla catena fino a sera, ma si era una delle figure sociali protagoniste e come tale si era riconosciuti. Il disoccupato, malgrado alcuni sforzi di qualche parte della sinistra, non lo è o non lo è ancora, è un perdente, e chi vuole identificarsi con un perdente? Nessuno. Si perde di ruolo e di identità non solo davanti agli altri ma, più amaramente, di fronte a se stesso.
C’è poco da obiettare: un’identità sociale te la dà chi ti circonda, ma se sei fuori dal giro “produttivo”, non sei neppure visto. Quindi non ti vedi; disoccupazione, perdita dell’impiego, vuol dire anche perdita di sé, certamente perdita della sfera nella quale ti trovavi e identificavi; dai colloqui raccolti da Campetti traspare una malinconia profonda, una solitudine. Sarà anche una incapacità dei soggetti a darsi una fisionomia
più solida del mestiere o dell’impiego cui hanno dovuto rinunciare, ma è cosi. “Alla catena diventavo matta di fatica, anche perché se un tempo ogni tanto si fermava, adesso non si ferma più, devi correrle dietro. E poi negli intervalli il lavoro ti rimandava la percezione dei compagni della tua stessa condizione, con loro potevi parlare, mentre adesso non hai più nessuno con cui condividere le chiacchiere che in fabbrica ti venivano naturali. Chiacchiere che non riguardavano l’azienda se non quando era proprio obbligatorio, ma la giornata qualsiasi di ognuno di noi. La fabbrica era il mio mondo e per quanto faticoso fosse, mi dava un orizzonte che come disoccupata, e non più giovanissima, non ho”. Goghi non dice che le manca quel senso comune diffuso che era una certa idea della politica, il vederti dentro una vicenda ingiusta più grande di te, e non un insignificante straccio che vola; non lo dice perché ha perso il lavoro ma non la socialità; per recuperare il senso di un collettivo alcuni di loro provano qualsiasi cosa che permetta di lavorare in comune, per esempio chiedere a qualche proprietario di terreni alla periferia di Roma di averne o affittarne una fetta per renderlo fecondo – di nuovo con la schiena curva. Prima era il bancone su cui viaggiava la catena, adesso sulla terra già abbandonata, dal mattino alla sera – per rifarla vivere, trarne insalata e magari pomodori da vendere da qualche parte.
“Il lavoro nell’orto vuole l’uomo morto” è la battuta popolare dei romani, che nei loro anfratti profondi conservano un pessimismo glaciale. “Comunque muori sentendoti assieme ad altri e utile a qualcosa”, protesta l’ex lavoratrice. Finché non si stufa di rompersi la schiena per tirar su dalla terra “quattro cavoli”,
che spesso non riuscirà a vendere e dovrà finire col mettere in tavola per sé. L’ascolto di Campetti non ci rimanda alla già troppo elogiata, dai cattolici e dalla borghesia, qualità morale che il lavoro in sé produrrebbe e che il movimento operaio, non riformista, gli nega; nessuno di questi interlocutori affaticati glielo regalerebbe, il lavoro, riconoscerebbe soltanto che lavorare assieme, in uguali condizioni e facendosi reciprocamente coraggio, è infinitamente meglio di un invecchiare solitario. Anche di questo si potrebbe dubitare, almeno quando lo si esamina dal di fuori. Non erano senza motivo le battaglie del Sessantotto e seguenti contro il “lavorismo”. Ma non è un caso che si siano formate in anni in cui “il lavoro non mancava”. Adesso si sperimenta la sua mancanza, che non si sa più a chi imputare, mentre appare più distante la ripetitività e la noia quando non è dura fatica, della mansione scandita dalle lunghe giornate in fabbrica. Sarà questo o sarà altro, ma non è che al lavoro salariato si sia opposto il “lavoro libero” e neppure “un tempo libero” realmente bonificato. Di libero c’era soltanto la dimensione politica, ed essa viene negata come una favola di altri tempi. Ci sono diversi livelli di malessere nello stare in un mondo che ha smesso di interrogarsi sul suo meccanismo di fondo come faceva nelle generazioni scorse. Incastrati in una fatica alienante e doppiamente incastrati se vengono esclusi, ad opera dei famosi meccanismi del mercato su scala mondiale, dal solo modo di accedere a un reddito, i disoccupati penano a difendersi e ancor più ad accettare le folle che le guerre o la povertà gettano in Europa, continente che sembra più ricco; e possono essere preda del primo Salvini che passa: “Perché vengono ascoltati loro e noi no?” La trappola neoliberista scatta sempre a favore dei padroni, che nel campo del lavoro hanno vinto grazie alla complicità del Pd.
*Introduzione al libro “Non ho l'età”, di Loris Campetti
(ed. Manni, pp. 198, euro 15), in libreria dal 12 novembre