L’ex Ilva è a un passo dal disastro, secondo quando affermato dai commissari straordinari e adombrato nei giorni precedenti dal Ministro Urso che ha evocato Bagnoli.
Un messaggio drammatico in una città che da più di dieci anni è provata e sfibrata dalla mancanza di soluzioni. La trattativa con Baku Steel sembra non essere mai partita davvero visto il prolungarsi dei tempi, l’autorizzazione integrata ambientale ancora non c’è, le risorse scarseggiano per le normali attività.
In queste ore sembrerebbe che gli effetti della fermata dell’altoforno 1, a causa dell’incidente dei giorni scorsi, ricadranno ancora una volta sui lavoratori. Un eventuale fallimento colpirebbe esclusivamente chi ha già pagato un prezzo altissimo: lavoratori e cittadini, che invece debbono poter contare sulla solidità dello Stato. Un Paese senza acciaio primario rinuncia ad essere un Paese industriale. Quindi è ora che il piano di ripartenza diventi piano di transizione verso la decarbonizzazione e garantisca lavoro, salute e sicurezza. Bagnoli fu dismessa per sovrapproduzione di acciaio ed il piano di chiusura non ha garantito né i lavoratori, né il territorio dato che le bonifiche non sono mai state completamente realizzate.
È bene ricordare che il fallimento dell’Ilva di Taranto avrebbe un effetto a catena sugli impianti di Genova, Novi Ligure, Racconigi ma più in generale sull’industria del nostro Paese. Ed è altrettanto chiaro che la chiusura dell’ex Ilva significherebbe non solo non risolvere i problemi ambientali ma sarebbe una bomba sociale ed economica. Per questo che lo scenario del fallimento deve essere scongiurato. L’ex Ilva è un banco di prova.
Il fallimento della gestione privata con soldi pubblici da parte di Arcelor Mittal ha riproposto tutti i nodi non affrontati, ma oggi si impongono scelte ed assunzioni di responsabilità. All’ennesimo salvataggio si è arrivati perché i lavoratori di tutti i siti si sono mobilitati e il Governo ha accettato in parte le richieste. Il tavolo di confronto nato a Palazzo Chigi è servito al coordinamento tra i Ministeri ed ha accompagnato i commissari al piano di ripartenza che preparava il bando: ma siamo sicuri che la vendita convenga ai lavoratori, cittadini e allo Stato? Unitariamente i sindacati metalmeccanici prima della decisione di mettere in vendita hanno sostenuto che fosse necessario un ruolo prioritario dello Stato. Sono necessarie più risorse e più lavoratori per mettere in sicurezza gli impianti e la produzione. L’incidente all’altoforno 1, senza conseguenze sulla vita dei lavoratori, dice in modo chiaro che bisogna procedere sulla messa in sicurezza degli impianti per consentire la transizione verso la decarbonizzazione.
In molti Paesi europei, da ultimi Gran Bretagna e Germania, hanno preso la decisione di nazionalizzare asset strategici come le telecomunicazioni, l’energia e l’acciaio. Uscendo da un confronto fazioso chiedo: per garantire lavoro, salute, produzione, ambiente per l’ex Ilva qual è la migliore soluzione ora per garantire una continuità aziendale e produttiva che permetta la decarbonizzazione e il mantenimento dell’occupazione di un asset industriale strategico in assenza di soggetti privati nazionali ed internazionali?
È ora di assumersi responsabilità e non che siano gli eventi a decidere. Bisogna non ripetere gli orrori commessi in passato. Sarebbe diabolico mettere risorse pubbliche in mano a qualsiasi gestione privata che non raggiunga l’obiettivo di un accordo per la salute e l’occupazione di tutti i lavoratori. Un accordo “d’acciaio verde” tra lavoratori, cittadini e lo Stato in assenza o con la partecipazione del privato.
I lavoratori sono gli unici che potranno realizzare la decarbonizzazione. Taranto, Genova, Novi Ligure e Racconigi hanno diritto ad un piano in cui tutte le Istituzioni siano coinvolte e che consenta di passare dalla ripartenza alla transizione della produzione garantendo salute, sicurezza, occupazione.
Articolo Di Michele De Palma pubblicato sul Fatto Quotidiano del maggio 2025