Sabato, 12 Ottobre 2024

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Possiamo salvare l'auto italiana

La strategia omicida di John Elkann, perché è evidente la decisione di Stellantis di ridurre ai minimi termini la produzione di auto in Italia, accompagnata a quella di atrofizzare ogni tentativo di innovazione, ricerca e sviluppo, invertendo una rotta intrapresa qualche anno addietro, ha almeno avuto un risultato positivo. Ha compattato il sindacato: Fim, Fiom e Uilm, rispettivamente guidate dai segretari generali Ferdinando Uliano, Michele de Palma e Rocco Palombella, martedì 24 settembre hanno proclamato lo sciopero unitario delle tute blu dell'automotive, indetto per il prossimo 18 ottobre. La misura è colma e le svariate promesse del premier Giorgia Meloni, del ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, dell'amministratore generale di Stellantis, Carlos Tavares, del presidente di quella che fu la Fabbrica Italiana Automobili Torino, leggi Fiat, ovvero John Elkann, erede di Gianni Agnelli, è chiaro che non stanno portando a nulla, se non all'agonia. E allora il sindacato usa l'arma dello sciopero per difendere il lavoro. Magra consolazione, la pace sindacale, mentre in lontananza – il suono pare provenire dalla Germania – rintoccano le campane a morto per il settore auto: soffre Stellantis, ma anche Volkswagen, insieme all'intero indotto. «Siamo ancora in tempo per invertire la rotta. Abbiamo le competenze per potercela fare. Ma serve una politica industriale nazionale ed europea in grado di stare al passo con la programmazione e l'attenzione che le altre potenze internazionali, Cina e gli Stati Uniti, hanno avuto e stanno avendo nei confronti dell'industria», risponde Michele De Palma, segretario della Fiom.

L'industria. Le tute blu. Non sono ormai un tema del Novecento?
«Sono più attuali che mai. Piuttosto Bruxelles e Roma, ma probabilmente anche Berlino, non hanno colto la centralità dell'industria. Mentre l'ha colta benissimo la Cina, che può inondare con le sue auto elettriche a basso costo, e l'hanno compresa gli Stati Uniti che hanno avviato una forte politica di reshoring di varie fasi produttive, specialmente nell'elettronica e nella meccanica. L'Unione Europea e il governo italiano hanno le medesime responsabilità di fronte a un fallimento oggettivo della tenuta dell'industria dell'automotive, dell'elettrodomestico, dell'acciaio, di fronte a un costo dell'energia che evidenzia disuguaglianze non più tollerabili fra stati europei, di fronte a un dumping salariale e fiscale inaccettabile tra paesi membri dove il costo del lavoro non è lo stesso e al cospetto di obiettivi ambientali che, se non raggiunti, rischiano di disintegrare l'intera Europa».

Mi sembra di capire che stavolta il colpevole per la crisi dell'industria non sia da cercare a Roma, bensì a Bruxelles. Conferma?
«Bruxelles e Roma, hanno affidato al mercato e alla finanza l’Unione Europea e siamo al rischio che salti tutto. Chi governa ha le sue responsabilità perché non ha mai affrontato e risolto la crisi di settori strategici come la siderurgia, con l'Ilva ferma e in panne da troppi anni, in compagnia della Ast di Terni e dell'acciaieria di Piombino; l'elettrodomestico, un tempo asset strategico e trainante, che oggi rischia il canto del cigno con la vendita degli stabilimenti Whirlpool ai turchi di Beko; e tutto il tema della mobilità sostenibile in cui il Paese si è legato mani e piedi a Stellantis; in più ci sono le crisi legate alle vecchie centrali di Brindisi, Civitavecchia e Livorno e ai petrolchimici siciliani e alla Glencore e Portovesme in Sardegna. E gli effetti positivi del PNRR su telecomunicazioni e installazioni ancora non si vedono.
A questa situazione nostrana, caratterizzata dall'incapacità politica di offrire una visione industriale, si aggiunge una congiuntura europea recessiva, parecchio preoccupante, perché è sotto attacco la principale caratteristica della manifattura europea e italiana: l'export. Negli ultimi decenni i buoni risultati della struttura industriale europea sono stati generati dalla capacità di esportazione: ora la guerra, le incertezze geopolitiche, la difficoltà del trasporto navale attraverso lo Stretto su Suez a causa degli attacchi degli Houthi yemeniti nel Mar Rosso, nonché le politiche protezionistiche e di sviluppo di produzione intera delle altre super potenze, stanno mettendo in discussione le esportazioni europee e questo sta danneggiando la manifattura europea. Dunque, quello che pensiamo è che serve un investimento straordinario di risorse in Europa e per questo la politica dell'Unione Europea, ma anche quella nazionale, deve cambiare per non essere schiacciata tra Cina e Usa».

Quindi condivide il piano Draghi da 800miliardi di euro per salvare l'Europa?
«Il tema che pone Draghi, rispetto al rischio che corre l'Europa di essere stritolata tra le politiche commerciali ed economiche di Usa e Cina è un elemento oggettivo. Il punto è che cosa si fa. E ci sembra, al sindacato italiano e a quello europeo, che Bruxelles e Roma non abbiano compreso il ruolo centrale del lavoro industriale. E continuano a non capirlo: l'Europa si tiene sul lavoro, senza di quello l'Unione sprofonda. Il peccato originale europeo è stato quello di sostenere che l'economia e l'industria si gestissero con regolamenti e incentivi, imbrigliando l'industria e arrivando al punto da incentivare non la produzione, ma addirittura l'acquisto. L'affidamento al mercato è stato un errore, e lo hanno capito le altre superpotenze, che hanno programmato, scelto e sostenuto determinate politiche industriali, basate sull’innovazione, dalle applicazioni dell’IA all’ICT, dalla mobilità al biomedicale».

All'assembla di Confindustria, Giorgia Meloni ha molto criticato il green deal europeo, definendolo disastroso.
«L'Europa e l'Italia hanno commesso degli errori, ma non ho mai pensato che sul fronte della transizione sia possibile guidare guardando nello specchietto retrovisore. Così si rischia di andare a sbattere. Non è possibile tornare indietro sul fronte della transizione, semplicemente perché il resto del mondo ha intrapreso quella strada e sarebbe un suicidio invertire la rotta. Piuttosto gli stati membri e le multinazionali devono comprendere che per essere competitivi non si può più ragionare solo in termini di produttività, ma è necessario recuperare il gap di innovazione che abbiamo accumulato con Stati Uniti e Cina. E questa innovazione la si raggiunge mettendo a fattor comune le competenze delle singole imprese e dei singoli stati, che non possono più permettersi di competere fra loro ma devono imparare a fare squadra: perché dall'aerospazio, alla siderurgia, abbiamo ancora parecchie carte da giocarci».

In quali settori?
«Fincantieri, Leonardo, Eni, le industrie dell'Information Comunication Technology (Ict), la Cybersicurezza, StMicroelectronics (che raddoppia l'impianto di semiconduttori di Catania) sono tutte aziende che stanno crescendo e correndo. Persino nella produzione di autobus, se solo lo Stato sbloccasse la situazione di stallo in Industria Italiana Autobus, avremo una grande capacità competitiva».

Ha citato per lo più imprese partecipate pubbliche. Aggiungiamo le varie richieste di intervento pubblico in caso complessi, come l'Ilva e la Ast di Terni: sogna il ritorno dell'Iri?
«Quando c'era l'Iri, lo Stato non solo era proprietario dell'industria, ma per per quest'ultima disegnava una politica industriale coerente e lungimirante. Oggi, se le multinazionali europee non capiscono che devono cooperare sul sentiero dell'innovazione per pareggiare il gap con gli altri paesi, allora siamo prossimi alla fine del sogno europeo. E’ ora di passare dall’industria privata o di Stato a quella pubblica nell’interesse dell’umanità e del pianeta».

Torniamo in Italia. Un anno fa, proprio sulle colonne dell'Espresso, esprimeva massima preoccupazione per l'automotive italiano. A distanza di un anno, qual è la situazione?
«Purtroppo ci avevamo visto giusto. In quest'anno abbiamo assistito a dichiarazioni pubbliche, del governo, del ministro Urso in primis, e dell'amministratore delegato di Stellantis che hanno deviato la realtà. Da entrambe le parti, veniva magnificato e promesso il raggiungimento di un milione di veicoli prodotti in Italia. Il governo ha investito 950milioni in incentivi per l'acquisto dell'auto elettrica, ma parallelamente Stellantis ha perso quote di mercato e negli stabilimenti italiani è aumentata la cassa integrazione. I primi sei mesi del 2024 hanno segnato un crollo del 29,2% della produzione di automobili rispetto allo stesso periodo del 2023. E sul fronte della manodopera, dal 2014 sono usciti più di 11.500 lavoratori, altri 3.800 sono in uscita entro l'anno, a fronte di 34mila dipendenti del gruppo Stellantis in Italia. In quest'anno l'azienda di John Elkann ha venduto Comau, un gioiello dell'automazione industriale, a un fondo d'investimento, e accompagnato all'uscita 173 ingegneri del centro ricerca e sviluppo di Modena, nato per il rilancio dell'Alfa e della Maserati, e che ha definitivamente chiuso i battenti e tolto l'insegna dalla facciata. Sono chiari segnali di disinvesitmento sul fronte dell'innovazione, che si aggiungono alla resa sul fronte della produzione».

Ovvero?
«La Topolino elettrica è fatta in Marocco; la nuova 600 ibrida ed elettrica in Polonia, l'Alfa Junior va in Polonia, la Panda elettrica in Serbia; la Lancia Ypsilon in Spagna. Queste sono le allocazioni, mentre negli stabilimenti italiani abbiamo un problema di cassa integrazione perché, se nel 1999 producevamo 1,4 milioni di auto, nel 2022 ne abbiamo prodotte 473mila e quest'anno siamo sotto le 400mila unità. E mentre l'azienda ha messo nel congelatore la realizzazione della Gigafactory di Termoli, rinunciando alla conversione di un impianto, dalla produzione di automobili a quella di batterie per auto, il governo ha risposto allocando altrove le risorse per quel progetto. IN mezzo ci stanno i dipendenti di Termoli: 2mila persone, di cui 1.600 in cassa, senza alcuna idea di futuro».

Veniamo all'acciaio. Per Ilva sono pervenute 15 manifestazioni di interesse. Un buon segnale?
«Dipende. Sembra che gli interessamenti siano rivolti per lo più a parti del gruppo. Ma l'acciaieria deve restare unita, se vogliamo continuare a puntare sull'acciaio come asset strategico. Altrimenti ci legheremo ancora di più alla produzione asiatica. Centrale, per noi, che il governo mantenga una presenza in Ilva con Invitalia e Cdp, perché deve essere garantita la centralità dell'acciaio nel sistema industriale».

Federmeccanica settimana scorsa si è seduta al tavolo della trattativa per il rinnovo contrattuale con un rapporto che mostra un calo della produzione del 3,4% nel secondo trimestre sull'anno. E le previsioni sono all'insegna dell'incertezza.
«Ma se si vuole rilanciare la domanda, allora bisogna investire sui salari delle persone e non scaricare sui lavoratori i costi della transizione. Abbiamo chiesto di sperimentare la riduzione dell'orario di lavoro e spingere di più sulla formazione».

E nelle stesse ore la Confimi Industria siglava il primo contratto multimanifatturiero con la Confsal. Che ne pensa?
«Che non so in quale Repubblica siamo finiti. Che ministri si presentino a legittimare un accordo tra privati, che non hanno rappresentanza alcuna nel nostro manifatturiero, è sconvolgente. Erano presenti la ministra Elvira Calderone, l'ex ministro del Lavoro ed ex segretario della Fiom, Cesare Damiano, e l'ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. Credo che il paese abbia oggettivamente bisogno che la politica si occupi dei problemi veri, non di legittimare un sindacato giallo e un contratto che è una mina al sistema industriale del Paese, che mette le persone in competizione sul costo del lavoro».

 

La Fiom è il sindacato delle lavoratrici e lavoratori metalmeccanici della Cgil

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