Giovedì, 18 Aprile 2024

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Lo Stato investa nella nuova mobilità

«Lo sa qual è il colmo per un operaio che assembla la 500 Elettrica? Non potersela permettere. Arrivare la mattina in fabbrica a bordo di un'auto euro tre e sapere che, per come stanno andando le cose, non se la potrà mai permettere», dice il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, Michele De Palma, pugliese, 47 anni, per anni coordinatore nazionale del settore automotive per la Fiom-Cgil.

La 500e per le masse. Un'affermazione che sa di anni '70. Non le pare?
«Quando ormai più di dieci anni sostenevamo la necessità di investire in Italia su auto elettrica e ibrida, perché guardandoci attorni si capiva già che il mondo stava andando lì, ci considerarono dei pazzi. Sergio Marchionne ci rispose che costava troppo produrre la 500 elettrica in Italia. Eppure adesso a Mirafiori si produce proprio la 500e. E se dovessi guardare al futuro, credo che lo scontro si giocherà sull'auto elettrica mass market, è lì che dobbiamo investire».

L'Italia invece sta puntando sull'auto premium. Tutto da rifare?
«Torno al concetto iniziale: gli operai devono potersi permettere di comprare un'auto. E se quelle fatte in Italia sono troppo lussuose, allora acquisterà un'auto ibrida o elettrica fabbricata da francesi, coreani, giapponesi. Già oggi solo il 15 per cento degli incentivi alla rottamazione finanziano auto made in Italy. Vuol dire che lo Stato, cioè noi che paghiamo le tasse, contribuisce al benessere degli azionisti e delle aziende dei paesi terzi. E questo perché abbiamo puntato sull'auto di lusso. È arrivato il momento di affermare che questo modello di business non è più al passo con i tempi, che dobbiamo tornare a produrre veicoli mass market per intercettare la domanda di quella classe media e operaia che a brevissimo dovrà cambiare auto».

E queste auto, dovremmo produrle noi in Italia?
«La grande forza della nostra industria è sempre stata quella di essere in grado di fare la Ferrari e la 500, la Uno e la Lancia Delta, la Thema e la Tipo. Abbiamo sempre prodotto mezzi per coprire il diritto alla mobilità delle persone. Mentre, più recentemente, è successo che, per garantire marginalità e dividendi alle aziende, si è puntato solo sull'alto di gamma, sacrificando moltissimo in termini di occupazione, delocalizzazione e compromissione dell'intero indotto. Inoltre, Stellantis con la politica della riduzione dei costi sta mettendo a repentaglio la salute e la sicurezza dei lavoratori con un peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro, motivi che hanno portato alle iniziative di sciopero con una partecipazione straordinaria a Pomigliano».

Tornare a produrre auto dal costo accessibili. E come pensa di convincere le case automobilistiche a farlo qui in Italia?
«È lo Stato che deve offrire ai privati gli strumenti per produrre in Italia. Nel nostro paese, a differenza di Francia, Germania e Spagna manca di una visione di futuro, fondamentale per quell'industria (chiamata a progettare un piano industriale) e per lo Stato, che deve offrire al privato gli strumenti utili alla realizzazione di quel piano industriale. Diciamolo, da noi nessuno ha il coraggio di convocare gli amministratori delegati delle grandi aziende, come fanno gli altri paesi, per dire: “Negoziamo e cerchiamo di capire di cosa c'è bisogno per far restare l'automotive in Italia”. Perché a conti fatti siamo passati dal produrre due milioni di veicoli l'anno a circa 500mila macchine e quando la produzione è così bassa risulta complicato per le imprese dell'indotto fare i giusti investimenti, con la certezza di essere poi ripagati da quell'investimento».

Sta dicendo che il treno dell'automotive l'abbiamo già perso o lo stiamo per perdere?
«Sto dicendo che in due anni da Stellantis sono usciti settemila lavoratori, che non sono stati sostituiti (neppure in parte) con nuove assunzioni di giovani in grado di lavorare con la tecnologia digitale di cui oggi c'è disperato bisogno per stare al passo con l'innovazione. Sto dicendo che solo investendo sui lavoratori, sugli ingegneri dei reparti ricerca e sviluppo, sui ricercatori delle nostre università, sui bravi tecnici che stanno in produzione, sulla genialità di chi lavora possiamo recuperare il gap generato dalla capacità sistemica che ha consentito agli altri paesi di crescere così tanto. Sto dicendo che è ora di prendere coscienza che il tonfo dell'Italia è pesante: un tempo gareggiavamo con la Germania a chi produceva un'auto in più dell'altra, oggi siamo all'ottavo posto in classifica, dietro alla Repubblica Ceca. Gli altri paesi produttori, Corea, Cina, Giappone, Francia e Germania si sono apparecchiati un posto al tavolo dell'auto elettrica. Noi no e questo è grave».

È grave solo per chi lavora in Stellantis?
«Quando la produzione di veicoli è così bassa, per le aziende della componentistica diventa complicato fare investimenti, perché l'entità delle commesse non ripaga l'esborso. La Lear di Grugliasco, che produce sedili, è in crisi perché non ha i volumi produttivi, avendo perso la commessa per i sedili della 500e, che è stata data all'azienda turca Martur, la quale ha una nuova sede nel torinese. In altri paesi europei si è consolidata una catena di fornitura, anche attraverso il reshoring o la crescita dimensionale delle aziende, sostenuta da politiche pubbliche. Mentre in Italia, per il fatto che non c'è un'azienda produttrice nazionale, perché ormai non possiamo più dire che Stellantis è un produttore italiano, questo determina il fatto che vi è uno sfibrarsi del tessuto industriale intorno all'azienda che si occupa dell'assemblaggio finale e il rischio non è la transizione, ma un calo dei volumi e quindi una desertificazione».

E a questo si aggiunge la riduzione di posti di lavoro che verrà dalla transizione ecologica...
«Quando diciamo che la transizione distrugge posti di lavoro dovremmo riflettere sul fatto che è vero che non fai più un motore endotermico, ma fai un motore elettrico che ha meno componenti, ma ha comunque delle altre specifiche da realizzare, come i semiconduttori, le colonnine di ricarica, le nuove leghe leggere. Il problema principale del nostro paese è che noi non stiamo producendo la transizione, la stiamo subendo, e quindi corriamo il rischio di una dimissione dell'auto. Dovremmo invece porci un obiettivo, riportare la produzione a due milioni di veicoli, perché ne abbiamo la capacità produttiva, anziché limitarci a pochi veicoli e contenendo il malcontento generale con l'uso di cassa integrazione a gogo, come succede da 12 anni a questa parte».

Però questo vorrebbe dire avere una casa automobilistica interessata a questo obiettivo..
«L'Italia è l'unico paese europeo con un unico produttore, ma questa è stata una scelta di protezione che in passato la politica ha esercitato nei confronti di Fiat. Mentre oggi avremmo necessità di ottenere investimenti sulla produzione di nuova mobilità, al di là del nome dell'investitore privato. Del resto non c'è una partecipazione dello Stato italiano dentro Stellantis, mentre invece ce l'ha il governo francese: quindi dal nostro punto l'obiettivo deve essere produrre nuova mobilità visto che abbiamo know how, competenze, capacità di ricerca e produzione e dobbiamo decidere se usare queste risorse per favorire la transizione o procedere verso la dismissione. E questo lo deve decidere lo Stato, non Stellantis. Ecco perché serve una conferenza nazionale sull'automotive, che stabilisca obiettivi, risorse, responsabilità sociale dello Stato e delle imprese e un piano programmatico per garantire occupazione attraverso investimenti e formazione delle persone, necessario per costruire le auto del presenti e del futuro.

Crede che i cittadini siano disposti a investire ancora in automotive?
«Altri paesi europei hanno fatto dei piani. Il documento creato dall'Osservatorio Automotive, composto da noi, Fim, Uilm e Federmeccanica, compara quello che hanno fatto altri paesi europei e abbiamo scoperto che altrove i governi contrattano gli stanziamenti pubblici a fronte di investimenti e occupazione. Non ci possono più essere investimenti a fondo perduto. Non possiamo più continuare a dare i soldi delle nostre tasse a una multinazionale il cui amministratore delegato guadagna centinaia di milioni di euro, si distribuiscono 4,2 miliardi di dividendi e poi si fa cassa integrazione per i lavoratori».

 

 

 

La Fiom è il sindacato delle lavoratrici e lavoratori metalmeccanici della Cgil

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