Rappa: Ilva, l'industria ha un cuore d'acciaio

Cuore acciaio
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 Perché è ancora importante la siderurgia nel 2017?

Rispondo con una citazione. Oscar Sinigaglia (Presidente Finsider e estensore dell’omonimo piano) nel 1946, presentando alla Commissione Industria dell’Assemblea Costituente il ruolo della siderurgia, diceva: “Io difendo la siderurgia non solo perché ha 60 mila operai ma perché è la base indispensabile per l’industria meccanica, perché considero quest’ultima uno dei più alti e importanti interessi italiani”. Il tema della siderurgia è esattamente questo. Non esiste Paese industrializzato e a forte presenza di produzione meccanica senza un’industria siderurgica. L’Italia è il secondo produttore in Europa, dopo la Germania.

Il nostro Paese produce 23.400.000 tonnellate (dati 2016), con un fatturato attorno ai 30 miliardi di euro, di cui 11 miliardi di esportazione. Il settore occupa in Italia circa 75 mila addetti, di cui 35 mila diretti; ci sono 133 aziende associate a Federacciai, che detiene circa il 95% della produzione. La Germania, che è il primo produttore europeo, produce 42 milioni di tonnellate; la produzione europea è di 162 milioni di tonnellate; a livello mondiale si producono 1 miliardo e 625 milioni di tonnellate, di cui la metà (circa 800 milioni) vengono prodotti in Cina. La produzione siderurgica ha un costante processo di crescita, malgrado la crisi.

 

Veniamo all’Italia. Qual è il quadro del comparto nel nostro Paese?

In passato vi era l’idea che la siderurgia fosse un elemento portante ed era sostenuto anche attraverso un ruolo fondamentale dell’industria pubblica, come nel caso dell’Ilva di Sinigaglia. Dalla metà degli anni Novanta, invece, il liberismo imperante e la cultura italiana “iperliberista” – indipendentemente da questo o quel Governo – hanno condotto a un processo di privatizzazione e frammentazione di tutto il comparto industriale pubblico, a partire dall’Iri. Nel caso della siderurgia la privatizzazione dell’Ilva è stata accompagnata da un’operazione di frammentazione mentre in ambito mondiale il processo è stato assolutamente inverso: abbiamo infatti assistito a grandi processi di concentrazione e competizione. Tendenza questa che si va sempre più rafforzando. Le operazioni in atto – la joint venture Tata-Tissenkrupp e l’acquisizione di Ilva da parte di Mittal vanno esattamente in questa direzione, determinando nei fatti un monopolio sul settore dei piani a livello europeo, motivo per cui l’Antitrust ha aperto la verifica sull’acquisizione di Ilva.

Con la fine del cosiddetto capitalismo familistico – i Riva, i Lucchini, etc. – la siderurgia italiana non è stata in grado di affrontare i necessari processi di integrazione per competere su scala internazionale.

 

Come hai ricordato poco fa il pubblico si è pesantemente ritratto. Qual è il ruolo del Governo oggi rispetto al settore siderurgico?

L’idea del Governo italiano è quella che il mercato sia regolatore. Ciò comporta le convocazioni di tavoli di confronto in cui al massimo si registrano le posizioni, in cui viene sempre ribadito il ruolo centrale dell’impresa rispetto al sindacato e – quello che è più grave – in cui è evidente l’assenza di un’idea precisa di politiche industriali. Questo mentre tutti gli altri paesi europei, a cominciare dalla Germania per arrivare alla Francia, pongono dei vincoli alle multinazionali. Penso al caso francese in merito alla vicenda Fincantieri ma anche con lo stesso Mittal, che è stato convocato sia da Hollande prima che da Macron poi per fornire rassicurazioni sui suoi impegni in Francia, dopo aver prospettato di concorrere nel nostro Paese all’acquisizione di Ilva.

La prima necessità è che il Governo ponga dei vincoli ai processi in atto, secondo una precisa idea di politiche industriali a livello generale. Oggi invece si agisce singolarmente vertenza per vertenza e non esiste un tavolo sulla siderurgia – nel suo insieme – al MISE. Ne fu aperto uno dal Ministro Zanonato in pompa magna, mai più riconvocato. Il limite di queste vertenze è che vengono vissute dal Governo in maniera frammentaria, senza una idea complessiva, col rischio di perdere la siderurgia d’altoforno. Quindi c’è un tema di sostegno alla produzione. In Italia produciamo circa 25-30% d’altoforno e 70-75% da forno elettrico, scenario assolutamente ribaltato rispetto a tuggli gli altri paesi produttori di acciaio, a cominciare dalla Germania.

 

Qual è il ruolo dell’innovazione del processo produttivo e della ricerca scientifica applicata al prodotto?

Nell’Ilva pubblica c’era un centro di ricerca di eccellenza, chiamato CSM (Centro Sperimentale Materiali) che svolgeva un ruolo d’innovazione sia di processo che di prodotto e, non a caso, la siderurgia italiana era la migliore. Con il processo di privatizzazione l’Ilva fu la prima a chiudere il rapporto con il CSM, mentre AST piuttosto che Lucchini continuarono a investire su questo centro di ricerca. L’Ilva puntò sulle quantità produttive e sull’abbattimento dei prezzi, contando anche sul mancato investimento in politiche ambientali e di sicurezza. Inoltre non vengono utilizzati al massimo delle loro potenzialità i punti di eccellenza in materia di ricerca e innovazione presenti negli Atenei italiani, primo fra tutti il Politecnico di Milano.

Altro tema fondamentale per la siderurgia italiana, in considerazione che il 75% della produzione avviene con il forno elettrico, è quello dell’acquisizione del rottame a prezzi competitivi, che in una realtà come quella italiana è molto importante. Noi più volte abbiamo chiesto di attivare, ad esempio, un consorzio nazionale per l’approvvigionamento del rottame, per non mettere in competizione le aziende fra loro. Non a caso come Fiom Cgil abbiamo sempre chiesto che il Governo promuovesse un Consorzio tra le aziende siderurgiche italiane del rottame, al fine di contenerne i costi e non determinare dumping tra le singole realtà produttive.

Altra questione centrale per la siderurgia italiana, da noi sollevata al Governo, era quella dell’abbattimento del costo energetico per uniformarlo a quello sostenuto dagli altri paesi europei. In questo caso il Governo si è attivato individuando una soluzione.

Inoltre è necessario che la logistica, i tempi e i costi dei trasporti in Italia recuperino il gap di competitività esistente con il resto dei paesi europei.

Noi riteniamo che Cassa Depositi e Prestiti debba essere messa a disposizione del settore siderurgico come elemento di garanzia, controllo e indirizzo.

 

Quando ti riferisci al riutilizzo del rottame pensi a una circolarità nella vita del prodotto?

Certo. La produzione siderurgica è in assoluto tra i processi più circolari rispetto alla green economy, nel senso che è tutto totalmente riciclabile, non a caso i rottami vengono recuperati. C’è una visione in Italia – giustamente falsata dalle vicende Ilva – in cui la produzione di acciaio viene vissuta come un elemento di iper-inquinamento. Questo è vero in parte: la produzione siderurgica, indubbiamente, non è una produzione a basso impatto ambientale ma ci sono delle innovazioni che consentono di poterla rendere ambientalmente compatibile. Noi abbiamo fatto delle verifiche nel distretto della Ruhr in Germania – dove si produce la grossa quantità di acciaio – e abbiamo visitato una fabbrica del gruppo Thissen che produce 12-13 milioni di tonnellate rispetto agli 8 milioni prodotti dall’Ilva.. E abbiamo scoperto che questa realtà produttiva convive tranquillamente con la città.

Il tema dell’innovazione del processo e del prodotto e il tema degli investimenti ambientali, che veniva vissuto da Riva solo come elemento di costo, sono in realtà un miglioramento della qualità del prodotto stesso.

 

Resta però il tema di una produzione inquinante e impattante sulla vita delle persone che vivono nelle vicinanze dei siti produttivi…

Spesso si dice che la siderurgia non è compatibile con i paesi cosiddetti sviluppati. Intanto la Germania smentisce questo ragionamento e poi l’idea che in Cina, che produce ormai il 50% del volume complessivo, la questione ambientale sia sottovalutata è una affermazione che andrebbe valutata con più attenzione. Le ultime notizie che abbiamo ci dicono che su quel terreno il Governo cinese – con tutte le sue contraddizioni – sta avviando una campagna di ambientalizzazione anche sulla produzione siderurgica. Da qui emerge il dato che la produzione cinese non si combatte col dumping o con i dazi ma bisogna competere a quel livello di qualità. Come Fiom abbiamo affidato un lavoro di ricerca all’Università del Salento per valutare le innovazioni di prodotto e processo per abbattere ulteriormente gli elementi inquinanti, perché per noi nella vertenza Ilva – come abbiamo sempre detto – ci sono due punti fondamentali e non in contrapposizione: l’ambientalizzazione di quel territorio e il mantenimento occupazionale.

Un’altra teoria bizzarra che circola è che meno si produce e meno s’inquina. Detta così sembra un ragionamento di buon senso. Si possono produrre 6 milioni di tonnellate, come si sta facendo adesso perché imposto in base ai fattori di rischio, o si possono produrre sempre 6 milioni di tonnellate ma riducendo del 50% l’inquinamento. Il tema delle quantità d’inquinamento è legata al livello di innovazione del processo produttivo e del prodotto.

All’Ilva nessun soggetto, né pubblico né privato, aveva mai misurato l’emissione di diossina. Nel 2012 si scopre, ad opera di un privato, che la quantità di diossina prodotta a Taranto è di gran lunga superiore alla media prodotta in Italia negli ultimi 20 anni. In questo caso è bastato un intervento tecnologicamente ed economicamente modesto, come mettere l’urea nel processo di lavorazione, per abbattere dell’80% le emissioni. Quindi il tema è che se ci sono le dovute innovazioni del processo le quantità produttive si possono mantenere.

Noi continuiamo a dire – a partire dall’assemblea nazionale del settore che abbiamo fatto il 29 novembre scorso a Roma con il Ministro Calenda e Federacciai – che bisogna avere una visione d’insieme sulla siderurgia, in cui le varie vertenze e le varie strategie produttive abbiano un filo conduttore.

 

Hai sottolineato i limiti del nostro Governo e l’assenza di politiche industriali per il settore. Qual è invece il ruolo dell’Europa rispetto al comparto siderurgico?

La siderurgia è l’unico settore dove ancora esistono politiche industriali europee, non a caso nasciamo dalla CECA. L’ultimo atto di politiche industriali prodotto dalla UE, che è un master plan del 2013, ha alcuni limiti ma comunque contiene elementi d’indirizzo e di risorse, in particolare sull’ambientalizzazione e sull’abbattimento dei costi energetici. Il Governo italiano pur avendolo recepito in sede europea non ha mai prodotto un piano italiano della siderurgia, magari proprio a partire dai temi ambientali.

 

Veniamo a quanto sta avvenendo in queste settimane sul caso Ilva. Ci ricostruisci i passaggi salienti di questa vicende e le criticità che come sindacato avete riscontrato?

Su Ilva c’è stata una gara tra due soggetti e noi abbiamo preso atto del risultato. L’Ilva ha avuto ben 11 decreti da parte della Presidenza del Consiglio; tutte le volte che si tracciava un percorso, col cambio di quadro politico, si determinava anche un orientamento diverso. Come Fiom avevamo salutato positivamente il decreto che affidava all’allora commissario Bondi la predisposizione di un nuovo piano industriale, che prevedeva di rimettere a regime l’Ilva e poi successivamente venderla, non escludendo il mantenimento di una quota in mano pubblica attraverso CDDP. Quel piano industriale, che è stato presentato alle Commissioni Attività produttive di Camera e Senato e che metteva in campo un processo di forte innovazione in collaborazione con l’Università di Milano, di fatto non esiste più. Questo piano si basava sul fatto che arriverà in Puglia un nuovo gasdotto, funzionale a produrre del pre ridotto da poter utilizzare in quota parte nell’alimentazione degli altiforni (10-15%) abbattendo in tal modo la produzione di coke e prevedeva dei precisi interventi di bonifica. Ma a piano già presentato, il Governo cambia di nuovo opinione e fa l’ennesimo decreto.

Di decreto in decreto siamo arrivati al punto attuale: non abbiamo idea di quanto sia il costo sostenuto dal Governo per le varie gestioni commissariali, determinando al contempo una cronica mancanza d’investimenti in manutenzione ordinaria e straordinaria. Si è arrivati alla gara dell’Ilva con gli stabilimenti nelle condizioni peggiori. Per contro l’introduzione dei dazi sui prodotti cinesi e la ripresa economica hanno favorito l’incremento dei prezzi e la crescita della capacità produttiva.

A contendersi l’Ilva nella gara sono state due cordate: una messa in piedi dal Governo, attraverso Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e l’altra da Mittal. Tutta la procedura, come più volte da noi dichiarato, dalla gara all’aggiudicazione, è stata contraddistinta da elementi di opacità. A tutt’oggi non conosciamo il contenuto del contratto di acquisizione firmato dai Commissari di Ilva e da Mittal.

 

Da un punto di vista strategico, in cosa differivano le due proposte di acquisizione?

Noi avevamo due ipotesi in campo: una, quella di Mittal, che era di continuità produttiva al netto dell’ammodernamento degli impianti attuali, e l’altra a forte carica d'innovazione spinta sul processo, con abbattimenti considerevoli sui prodotti inquinanti, che recuperava, innovandolo ulteriormente, il piano Bondi e che era rappresentata da CDP.

Dopodiché lo schema del bando di gara dava 50% di punteggio alla cifra di acquisto e il 50% alle tematiche occupazionali e ambientali. Quindi veniva privilegiato il prezzo di vendita rispetto alle tematiche ambientali e alla difesa dei livelli occupazionali. Detto questo, ha vinto Mittal e noi con questo elemento dobbiamo confrontarci.

Mittal, con l’acquisizione di Ilva, acquisisce quote di mercato italiano, che è il secondo mercato europeo e rafforza il suo ruolo di monopolista nel settore dei piani, tant’è che l’Antitrust è intervenuta riservandosi di dare un parere entro marzo, il che significa che fino a quella data non ci potrà essere l’affitto del ramo d’azienda e quindi saremo bloccati in questa situazione indefinita. Rispetto alla questione ambientale c’è solo un’ipotesi di anticipo di’investimenti ambientali commissariali (utilizzando 1 miliardo e 200 milioni sequestrati ai Riva) per anticipare il costo della copertura dei parchi minerari, che partiranno dal 1 gennaio 2018.

La procedura ex art. 47 aperta da Mittal e dai commissari nominati dal Governo, prevedeva l’assunzione ex novo dei lavoratori, tagliando salari e anzianità., al netto dei 4.200 esuberi. Stiamo parlando, in media, di 5 mila euro l’anno in meno per ogni lavoratore. L’avvio della procedura ha determinato c’è stato il primo sciopero unitario anti Jobs Act, che ha visto l’adesione del 100% dei lavoratori. La riuscita dello sciopero e la lotta dei lavoratori hanno determinato il congelamento della procedura e la modifica delle posizioni da parte di Mittal.

 

Che giudizio dai sul piano industriale che Mittal vi ha presentato?

Ci sono state mostrate delle slide, senza crono programma e quantità di investimenti, quindi un po’ poco per chiamarlo piano industriale. In più c’è un’incongruenza: o è vero il piano industriale o sono false le dichiarazioni che ne sono seguite. Mittal sostiene che a fine del piano industriale produrrà più di 10 milioni di tonnellate di acciaio dentro Ilva. Questa quantità non è mai stata raggiunta nemmeno da Riva, che ha raggiunto al massimo le 9 milioni di tonnellate impiegando 16 mila dipendenti e con un volume di straordinari molto consistente. Oggi l’occupazione è ridotta a 14 mila unità e, probabilmente, da qua a fine piano un altro migliaio di lavoratori andranno via per pensionamento o fatti fisiologici. Quindi se è vero il piano di Mittal gli occupati attuali non basteranno e saremmo di fronte a picchi di appalto enormi. Siccome c’è un vincolo preciso, legato al fatto che la cessione può avvenire solo se c’è l’accordo sindacale, voglio dire delle cose chiare e nette. Per quello che ci riguarda per poter fare un accordo occorre avere: il mantenimento degli attuali livelli occupazionali sia interni che dell’indotto, l’ambientalizzazione spinta e il mantenimento dei diritti.

 

Veniamo al caso Genova e ai licenziamenti che lì sono stati prospettati. I lavoratori stanno lottando duramente per difendere l’occupazione. Cosa chiedono?

Rosario Rappa Nel 2005, a fronte della chiusura del ciclo integrale e del ridimensionamento occupazionale si fece un accordo di programma, alla Presidenza del Consiglio, in cui si davano per 60 anni quelle aree ad un costo puramente simbolico a Riva, cioè a costo zero, con l’impegno di mantenere l’occupazione anche nella fase di spegnimento dell’altoforno, fino alla ripresa produttiva. Questo accordo è ancora valido e contiene questo impegno, pena il ritiro della concessione sull’area. Su questo non si può cedere.

 

Vorrei chiudere sul tema più discusso ogni volta che si parla di Ilva: il grave danno ambientale e le pesanti ricadute sulla salute nella città di Taranto. Come vi state muovendo per tutelare questi sacrosanti diritti delle popolazioni tarantine?

Noi, insieme a Legambiente, alla Regione Puglia e al Sindaco di Taranto abbiamo sottolineato un punto specifico del processo di ambientalizzazione: c’è una legge regionale del 2012 per la quale rispetto ad impianti inquinanti – come nel caso dell’Ilva – è previsto che assieme all’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) si produca anche la valutazione del danno sanitario. Per quanto riguarda l’Aia precedente, il Ministero aveva coinvolto tutti i soggetti territoriali, sindacali e associativi anche attraverso un’apposita Conferenza dei Servizi dove tutti hanno portato osservazioni di merito. Con quale risultato però? Un decreto del Consiglio dei Ministri che ha promulgato l’Aia senza tenere conto di alcuna osservazione e in più non introducendo la valutazione di danno sanitario, che è invece un obbligo per Regione e Comune. Anche in questo caso si può dire che c’è stata una gestione perlomeno opaca, tenendo anche in considerazione il fatto che abbiamo avuto tavoli sindacali e tavoli territoriali separati e paralleli, unica esperienza di questo tipo in tanti anni che frequento il Ministero dello Sviluppo Economico. Come Fiom, a partire dall’occupazione dello stabilimento di Genova, abbiamo posto la necessità di attivare due tavoli negoziali con la presenza di tutti i soggetti istituzionali, uno su Genova per l’attuazione dell’Accordo di programma e uno su Taranto sull’ambientalizzazione, richiesta che è stata accolta.

A breve i due tavoli saranno convocati dal Governo.

A Taranto abbiamo un territorio martoriato e delle popolazioni che hanno subito danni alla salute consistenti. Basti pensare che se anche s’iniziasse domani il processo di ambientalizzazione, il territorio tarantino continuerebbe a essere a rischio per i prossimi 20-30 anni, perché il danno ambientale prodotto è vastissimo. Chi pensa che basta chiudere l’Ilva per risolvere la questione ambientale, rischia solo di fare una seconda Bagnoli.

Per noi il tema dell’ambientalizzazione con lo stabilimento in produzione è la vera scommessa. Una scommessa fatta d’investimenti pubblici e privati, d’innovazione del processo e del prodotto e di mantenimento dei diritti dei lavoratori. Vedremo come andrà a finire. Noi ce la metteremo tutta.

 

*Inchiestaonline.it

 

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