Occupazione, di straordinario c'è solo il ristagno

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“Risultati straordinari”, così definisce il ministro del Lavoro Giuliano Poletti le stime sul mercato del lavoro diffuse dall’Istat il 29 luglio scorso. “Fatti, non parole …. Questo è il jobs act” cinguetta sullo stesso tema il suo datore di lavoro Matteo Renzi, mentre schiva i fischiato dei cittadini di Taranto. Un aumento dell’occupazione “sorprendente” fa eco soddisfatto il consigliere economico del Pd Filippo Taddei dalle colonne dell’Unità. Ma non sono in molti per fortuna a seguire questi “entusiasti” del jobs act. Diciamolo chiaramente: sul fronte dell’occupazione non è successo un bel niente. Non solo le stime di giugno, appena diffuse dall’Istat, proprio non testimoniano alcun cambio di passo ma anzi confermano la stagnazione e la perversione del mercato del lavoro nostrano che accompagnano da molti mesi la miope riforma dal nome inutilmente anglosassone.

Ricapitoliamo brevemente i motivi dell’euforia. L’Istat stima a giugno 71 mila occupati in più rispetto al mese precedente (di cui 15 mila con meno di 25 anni), con un leggero aumento del tasso di occupazione, ma con un aumento dei disoccupati dello 0,4% salutato però con favore perché accompagnato da un calo degli inattivi: la gente ritrova fiducia – questo il refrain - e dunque cerca lavoro mentre prima non lo faceva. È il quarto mese di occupazione in crescita: nel trimestre che finisce a giugno ci sono 145 mila occupati in più rispetto al trimestre precedente e 329 mila in più rispetto a giugno 2015. Va tenuto presente che si tratta di dati destagionalizzati, ossia trattati per rendere fra loro confrontabili i dati mensili (depurandoli da componenti stagionali e dalla diversa incidenza delle festività).

Soffermiamoci sul dato relativo all’occupazione. La stima originaria non destagionalizzata segna a giugno +191 mila occupati (più del valore destagionalizzato dunque perché giugno è un mese in cui in genere l’occupazione è tendenzialmente più elevata rispetto agli altri mesi a causa di fattori stagionali). Si tratta di un incremento al limite della significatività statistica: le stime mensili usano un campione più piccolo e hanno un intervallo di fiducia (misurabile solo sul dato originario) la cui ampiezza è di circa 260 mila occupati. Il punto è che l’incremento di giugno sembrerebbe dovuto essenzialmente a due componenti - il lavoro autonomo e gli ultracinquantenni – che meritano qualche breve riflessione.

Per il secondo mese consecutivo si riduce l’occupazione dipendente a tempo indeterminato (-100 mila): il doping degli incentivi e delle tutele crescenti ha finito il suo effetto? L’occupazione indipendente sarebbe in particolare aumentata a giugno di ben 199 mila unità, spiegando di fatto tutto l’incremento registrato nel mese. Inoltre, a fronte di una contrazione di circa 60 mila dipendenti a tempo indeterminato si registra una crescita di 52 mila unità dei dipendenti con contratti a termine (che sono cresciuti di 300 mila unità nel trimestre). Non si tratta di segnali confortanti. La crescita dell’occupazione indipendente appare per ora niente più di un episodio: è questo il segmento che maggiormente ha pagato l’impatto della crisi, ben prima del 2008. Rispetto alla media di quell’anno, nel primo semestre di quest’anno mancavano all’appello quasi mezzo milione di occupati indipendenti. Si potrebbe dire che la crisi ha falciato essenzialmente questa componente, la quale è a sua volta estremamente composita tanto da suscitare un crescente imbarazzo nella stessa statistica ufficiale: a fianco dei lavoratori in proprio, dei liberi professionisti e degli imprenditori (sulla cui effettiva indipendenza e autonomia, nella terra delle subforniture, ci sarebbe comunque da discutere), viene classificata fra gli indipendenti anche la galassia dei collaboratori: quelli a progetto (in diminuzione), gli occasionali, i voucher (in forte espansione), i titolari di partite iva senza dipendenti (sono in tanti quelli che lavorano per un unico committente). Per una parte significativa di questi, la condizione di “indipendenza” è davvero assai virtuale e discutibile, e anzi fra loro si annida la parte più debole del lavoro dipendente: in letteratura sono ormai noti come falsi indipendenti (o dependent self-employed), e rappresentano quella parte di occupazione non ammessa a forme contrattuali dipendenti. E sarebbe ora che si separasse con maggiore chiarezza anche nelle statistiche pubbliche il vero dal falso indipendente.

Se da un lato è proprio questa componente più indifesa ad avere subito i contraccolpi della crisi, è anche possibile che una parte del recente rimbalzo sia dovuto effetti contingenti, per esempio all’esplosione dei voucher, che proprio con la stagione estiva prendono vigore. Circa la metà delle ore retribuite con i famigerati voucher sono del resto concentrate presso piccole, medie e grandi imprese del commercio, della ristorazione e degli alberghi. Questo tema va ovviamente approfondito. Ma mettendo insieme questo dato con la contrazione dei dipendenti a tempo indeterminato e l’aumento di quelli a termine, tutto ciò sembra indicare la natura effimera della stagione degli incentivi: senza di quelli le imprese preferiscono i precari e se ne sbattono delle tutele crescenti.

Veniamo alla composizione per età: quasi tutto l’incremento di occupati di giugno deriva da individui con più di 50 anni (+180 mila occupati). Ha un sapore paradossale il dover rimarcare che gli ultra 64-enni (i quali in teoria dovrebbero essere fuori dal mercato del lavoro) esprimono da soli un incremento mensile di 62 mila occupati, ben superiore a quello registrato nel complesso delle classi di età inferiori ai 50 anni (e in particolare dei più giovani). A ben vedere siamo da tempo davanti a un cambiamento strutturale dell’occupazione in Italia, un cambiamento molto pesante e molto perverso. Basti pensare al fatto che se nel 2008 meno di un occupato su quattro aveva più di 50 anni, adesso siamo a più di uno su tre. Non solo: ci sono attualmente circa mezzo milione di occupati con più di 64 anni, e questo numero è pari a più della metà di quello degli occupati giovani con meno di 25 anni. All’inizio ufficiale della crisi, nel 2008, i più anziani rappresentavano invece meno di un quarto dell’occupazione giovanile: un cambiamento drammatico. Il percorso di uscita dalla crisi sarebbe dunque questo. Sia chiaro, l’effetto demografico dovuto all’invecchiamento della popolazione non serve granché a spiegare il fenomeno: è all’opera piuttosto l’effetto del progressivo aumento dell’età pensionabile e dell’esiguità stessa dei trattamenti pensionistici. A conferma di questa necessità di prolungare la vita lavorativa, non stupisce il fatto che un quinto dei lavoratori pagati con voucher ha più di 50 anni (e uno su 15 ne ha più di 64!), e che costoro esprimono circa un quarto delle ore retribuite con questo strumento. Nel solo 2014 (anno in cui “esplodono” i voucher) si trattava di circa 200 mila individui e 14 milioni di ore retribuite, equivalenti più o meno a 10 mila occupati a tempo pieno (ma in realtà a molti di più se si tiene conto delle ore lavorate in nero con la coperta di Linus del voucher). Nel 2015 queste cifre si gonfiano ulteriormente. Sempre nel 2014, sono state circa 12 mila le imprese manifatturiere (e oltre 40 mila nel commercio e nella ristorazione) che hanno fatto ricorso al lavoro di ultra-cinquantenni retribuiti con voucher, con una significativa presenza di grandi imprese. Anche questo punto merita di essere approfondito.

Si tratta, è evidente, di un problema grosso, determinato da riforme pensionistiche irrazionali e dalla scelta di non contrastare debitamente il lavoro nero e il lavoro grigio (le ore retribuite fuori busta, tipiche non solo dei voucher). Un problema che si vuole fare finta di non vedere e che è fortemente politico dal momento che contraddice pesantemente l’ideologia liberista che sta disfacendo l’Europa (e non solo). E invece gli “incauti” timonieri preferiscono consolarsi con una manciata di occupati giovani in più - peraltro nemmeno statisticamente significativa - e non vedere le contraddizioni che montano: senza contare che per commentare il dato sulla disoccupazione giovanile (e in particolare il tasso di disoccupazione) serve fra l’altro molta cautela poiché nel campione mensile dell’Istat sono solo poco più di un migliaio le interviste a occupati o disoccupati in quella classe di età e le stime sono perciò assai “precarie” (anche loro).

Un’ultima annotazione. Per interpretare meglio l’effettivo impatto delle variazioni dell’occupazione sarebbe ora che l’Istat cominciasse a diffondere stime mensili anche delle ore effettivamente lavorate (possibilmente senza destagionalizzarle), la variabile più importante del mercato del lavoro, dal momento che consente di misurare l’intensità dell’input di lavoro, e di fare perciò la tara all’effettiva variazione nel numero degli occupati.