No-Expo, la lezione del 1° maggio a Milano

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Relativamente al disastro politico contro cui si è schiantata la manifestazione No expo del 1°maggio pomeriggio, la Fiom potrebbe cavarsela egregiamente e semplicemente condannando i fatti e rivendicando la giustezza di una analisi che ha portato alla conseguente scelta della non partecipazione. Ma il peso politico del nostro agire e le relazioni strette con molte delle associazioni, gruppi, organismi che pure hanno partecipato alla manifestazione in questione ci impone la responsabilità di fare uno sforzo in più di analisi e tentare anche di dare un contributo a un dibattito pesante e difficile, segnato dalle solite posizioni lapidarie di destra e di “sinistra” che avranno come unico obbiettivo quello di tagliare le gambe a qualsivoglia opposizione e conflitto. Per ultimo vorremmo provare anche aprire una discussione e dare una mano a quella parte di movimento ora in grave difficoltà - ingenuo, debolissimo fin che si vuole - che è stata tra le vittime di quella manifestazione, ma con cui dobbiamo ritessere attività e prospettive.

Come premessa per rendere il quadro il più possibile aderente alla realtà va chiarito che: nella manifestazione di 10/15 mila persone il cosiddetto blocco nero era composto da 600 persone circa, organizzate da qualche blocco omogeneo che dirigeva e da una galassia di gruppetti che si “aggregavano”, con molti giovanissimi; non ci sono stati scontri, mai, tra costoro e le forze dell’ordine per scelta di entrambi; non è stata “la copia di Genova” per mille ragioni, non è stata devastata una città ma una zona ristretta tra un paio di vie, il resto del corteo ha circoscritto la presenza del blocco e non è mai intervenuto contro di esso.

Per entrare nel merito e per superare letture caricatoriali e semplicistiche che narrano di “alcune centinaia di delinquenti che rovinano una manifestazione pacifica” tout court, oppure che “basterebbero i servizi d’ordine di una volta”; penso vada articolato un ragionamento iniziando nel dire che

  1.  c’è una parte del movimento (in senso molto largo) politicamente orientata su posizioni molto precise che si rifanno alla cosiddetta galassia anarco insurrezionalista o autonoma (quindi non banalmente delinquenti/deficienti) per cui la lotta politica democratica è inutile, inefficace, fuorviante, mentre l’unico terreno concreto e “rivoluzionario” sarebbe l’estremizzazione sempre e comunque del conflitto. Qualsiasi occasione va sfruttata per sviluppare “conflitto radicale e caos” perché in questo agire si condensa il rifiuto totale al sistema e nel contempo si crea organizzazione diffusa e autonoma, impedendo o bloccando la crescita e lo sviluppo di altro movimento; per di più, questo agire è molto funzionale al sistema dell’informazione contemporanea basato sul simbolismo (le tute nere, le vetrine, le banche, etc.) e sull’atto sensazionale (se non ci sono casini nessuno ne parla), terreno che attrae molto i giovani, digiuni di qualsiasi esperienza politica, molto soli e incazzati. Questa rete fatta appunto di gruppi autonomi (anche piccoli di 10/20 persone e disseminati in tutto il paese) nel momento della chiamata, che non necessariamente è diretta ma avviene attraverso le modalità stesse che assume il processo di costruzione della manifestazione, possono arrivare, in Italia, a contare 700/1000 persone.

Questo modo di operare è altamente anidemocratico nei confronti delle altre componenti del movimento costrette al ricatto di subire le decisioni di pochi, oppure di accettare il terreno dell’organizzazione “militare” quale metodo di confronto, anche interno. Inoltre queste posizioni politiche ultraminoritarie e questo agire sono terreno aperto per l’uso e lo sfruttamento politico (Roma e Milano) se non addirittura per interventi di provocazione diretta (Genova 2001) da parte di chiunque.

E’ chiaro che per noi questo terreno non è compatibile con alcun movimento di liberazione e progresso.

  1.  Diciamo che tutto ciò è parte del movimento perché purtroppo il “resto del movimento”, la stragrande maggioranza, quello su posizioni anche molto distanti dalle suddette, e anche quella parte più vicina alla Fiom, non ha rotto radicalmente con quella minoranza e quindi, specie nelle occasioni più critiche, si viene a trovare di volta in volta in posizione di ambiguità, contiguità o addirittura in ostaggio. Tutto ciò innanzitutto per debolezza politica e poi anche per debolezza organizzativa. Sono giovani, organismi, collettivi, gruppi che vanno sostenuti, e la Fiom è tra i pochissimi che hanno le carte per poterlo fare. Esattamente per questo penso che non dobbiamo sottrarci ad un confronto politico che riesca ad articolare nel modo più chiaro possibile le questioni dirimenti.

Asserire che il problema è principalmente “interno al movimento” vuole dire che la responsabilità prima per la sua risoluzione spetta al movimento stesso, con tutte le difficoltà e la chiarezza del caso.

Le questioni di fondo da affrontare sono politiche e secondo noi consistono nella definizione del rapporto tra conflitto/violenza/rappresentanza/consenso/democrazia.

E’ chiaro che la violenza è uno degli strumenti, neppure secondario, praticato quotidianamente dal sistema dominante nel conflitto globale di classe o di interessi tra l’1% e il 99% degli abitanti del pianeta; sarebbe ipocrita parlare di violenza a senso unico, così come lapalissiano è il fatto che le vittime principali di tale violenza sono proprio i diritti, la democrazia, la rappresentanza e il consenso. E’ per questa banalissima costatazione che il nostro agire conflitto per il cambiamento non può che rovesciare il paradigma e partire sempre e comunque dalla domanda di chi rappresentiamo, che livello di partecipazione promuoviamo e quale livello di consenso ricerchiamo nello sviluppare qualsiasi nostra azione: una vertenza, uno sciopero, un picchetto, una occupazione, fino all’organizzazione di una manifestazione.

Per la Fiom l’adesione massima possibile e reale alla pratica della democrazia, della rappresentanza e del consenso son gli strumenti che ci permettono di misurare il livello e le forme del conflitto che esercitiamo in ogni occasione. Come potremmo mai giustificare ai nostri iscritti o ai lavoratori che ci votano e ci seguono nelle aziende una Fiom a viso coperto o corresponsabile di azioni come quelle del 1° maggio, o di iniziative che verrebbero condannate dalla maggioranza dei lavoratori e dei cittadini. Le forme di “rappresentazione” che spesso vengono agite sia relativamente al conflitto (le cosiddette azioni) così come riguardo alla rappresentanza e alla partecipazione che viene sostituita dall’avanguardismo, ci sembrano figli della debolezza, delle scorciatoie che non aiutano a crescere, non fanno chiarezza e anzi sono foriere di ambiguità. Anche l’esaltazione dell’atto simbolico alla fine contribuisce a nascondere o a travisare la realtà per riprodurla a caricatura, nel migliore dei casi.

Le caratteristiche di una manifestazione, la sua struttura organizzativa fino alla gestione delle sue fasi più delicate e anche il suo epilogo viene a configurarsi da subito, nel processo stesso della sua costruzione, nell’esplicitazione della cosiddetta piattaforma politica e nella dichiarazione degli obiettivi. E’ nella discussione politica per la sua preparazione che si decide il livello di democrazia, di rappresentanza, di partecipazione e di consenso che si vuole suscitare; è lì che si traccia lo spartiacque tra chi è dentro e chi è fuori, prima di tutto dal punto di vista politico. E’ li anche che si prefigura, di massima, come potrà concludersi una manifestazione per cui gli organizzatori ne assumono la responsabilità; in piazza si dovrebbero solo affrontare, con la giusta organizzazione, veri imprevisti o appunto provocazioni. I cosiddetti servizi d’ordine, pur fondamentali, non hanno mai deciso le sorti di una manifestazione ben organizzata. I servizi d’ordine servono per garantire la realizzazione di decisioni già prese.

La manifestazione No Expo del 1° maggio a Milano è stata una lezione durissima per le conseguenze che potrà produrre, va analizzata a fondo nei suoi passaggi cruciali e negli errori perché non è più tollerabile la coazione al ripetersi di percorsi, di ambiguità, di deficienze che puntualmente portano alla distruzione scientifica di ciò che con fatica si costruisce. Per questo non è più credibile la posizione della “presa di distanza” o semplicemente “delle azioni che non si condividono” , perché non affrontano il nodo vero e che sta all’inizio di qualsiasi confronto e cioè se certe posizioni politiche e certe pratiche sono o no compatibili con il movimento, con il suo sviluppo e la sua espansione; con tutte le conseguenze del caso.

 

Roberto Giudici, Responsabile organizzativo Fiom Milano

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