Giovedì, 28 Marzo 2024

In Italia il reddito è maschilista

In Italia, secondo le più recenti rilevazioni dell’indagine Eu-Silc (Istat, 2018), il reddito lordo maschile è aumentato, mentre l’equivalente femminile è diminuito da 20.099 euro lordi del 2015 a 20.093 nel 2016. Tutto ciò nonostante il 26,4% delle lavoratrici e il 35,4% delle freelance possieda una laurea, contro rispettivamente il 16,9%% e il 24,2% degli uomini.

Questi dati, ricordando che l’obiettivo SDG 8 delle Nazioni Unite è invece focalizzato a “realizzare pari retribuzioni per un lavoro di pari valore” entro il 2030, offrono lo spunto per una riflessione sul tema e sul contesto della disparità salariale di genere (gender pay gap), ovvero il fenomeno –risalente nel tempo – per cui si riscontra un differenziale monetario versato per l’attività lavorativa tra le donne e gli uomini, nonostante, in termini di capitale umano accumulato e di compiti svolti, sia effettiva la vicinanza tra generi.

Rispetto ai fattori alla base del fenomeno e alle strade percorribili verso la piena parità retributiva si è recentemente espresso l’International Labour Organization (l’agenzia delle Nazioni Unite che, riunendo in modo tripartito i rappresentanti di Governi, datori di lavoro e lavoratori, è responsabile di stendere e supervisionare gli standard internazionali del lavoro) nel Global Wage Report (una sintesi dei contenuti è consultabile al link sbilanciamoci.info/los-suedos-reales-caen/).

Quantitativamente, quindi, stratificando le quote non corrisposte, l’Istitute for women’s policy research stima che il mancato versamento ammonta a 482 miliardi di dollari e, secondo il Winning Women Institute, in percentuale il valore è pari al -23% (ovvero per ogni 77 centesimi guadagnati da una donna, un uomo riceve un dollaro) e tale da configurare il più grande furto della storia. Rispetto alle cause del fenomeno, poi, una rassegna della letteratura scientifica ascrive le motivazioni alle diverse preferenze sull’offerta di lavoro e sulla diversa produttività, ad elementi discriminatori, a strategie relativa alla ricerca di lavoro e ad elementi riconducibili alla sfera psicologica.

Indagare sui fattori che sostengono il divario salariale è particolarmente interessante, posto che, soprattutto nei paesi ad alto reddito, si tratta di un valore non riconducibile alle caratteristiche oggettive del mercato del lavoro (età ed esperienza) che, invece, per il resto, sono alla base della determinazione delle restituzioni. Inoltre, più operativamente, disporre di conoscenze puntuali in tema è un utile strumento, soprattutto per i policy maker impegnati nel definire politiche più efficaci che sradichino le disparità retributive a livello globale.

Nel complesso, nonostante le prestazioni scolastiche femminili risultino migliori (Istat, 2017) e la costanza profusa sia maggiore, di fatto le donne accumulano minore esperienza sul campo, a causa delle interruzioni nell’attività lavorativa nei periodi di maternità e di assistenza all’infanzia. Ciò comporta che gli stipendi aumentino in misura diversa rispetto all’età: dell’0,8 per cento all’anno per gli uomini e dello 0,5 per le donne, secondo l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori. Inoltre, posto che la stima della produttività si fonda su informazioni costose, asimmetriche e di fatto incomplete, i datori di lavoro possono propendere per discriminazioni di genere che, nel tempo, generano circoli viziosi e rendono le aspettative auto-appaganti, con un susseguente minore investimento femminile di tempo e di impegno. Inoltre, risultano dirimenti per il differenziale salariale anche le transizioni job-to-job, infatti il premio di mobilità è positivo o pari a zero per gli uomini, ma negativo per le donne che, in accordo con i doveri di cura familiare, assegnano valori superiori alle componenti non monetarie (distanza da casa, flessibilità e part-time).

Infine, a livello sperimentale, l’atteggiamento biologico nei confronti della concorrenza sembra differente: le donne mostrano prestazioni simili agli uomini, ma, limitatamente agli ambienti altamente competitivi, ottengono risultati peggiori (Gneezy, Niederle e Rustichini, 2004; Paserman, 2007; Niederle e Vesterlund, 2007). Tuttavia, le preferenze femminili all’avversione al rischio non sembrano innate e, con pertinenti e appropriate azioni politiche, può essere possibile modificare le condizioni ambientali che guidano i comportamenti (Booth, 2009).

Tra le misure per raggiungere l’equità salariale, lo stesso recente Global Wage Report suggerisce che gli interventi siano compatibili con le specificità del singoli Paesi, nonché basati su rilevazioni dati dettagliate e sul cambiamento dei modelli culturali esistenti e di fatto orientanti vincolanti, come si è detto (International Labour Office, 2018). L’attenzione posta dalle legislazioni nazionali è, ad esempio, determinante nel realizzare una effettiva condivisione dei doveri familiari e nell’assicurare una maggior presenza femminile nei settori scientifici.

In Italia, tra gli interventi recenti in questa direzione, si può citare l’estensione del congedo di paternità a cinque giorni totalmente retribuiti e l’estensione alle ricercatrici a tempo determinato della sospensione della durata massima dei contratti a termine durante il periodo di astensione obbligatoria di maternità (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, 2018). A riscontro dei risultati nazionali finora ottenuti, una rilevazione relativa alla soddisfazione femminile sul tema, su una scala da 0 a 10 (in cui 10 equivale alla piena soddisfazione), registra un valore pari a 3,5 e mostra, quindi, la necessità di ulteriori iniziative (Winning Women Institute, 2018).

Complessivamente, grazie ad un impegno politico e ad una trasformazione sociale diffusa, realizzare un’uguaglianza di genere nel mondo del lavoro è senz’altro possibile e, considerati la crescente consapevolezza e il consistente impegno profuso su più fronti (come l’iniziativa multi-stakeholder Equal Pay International Coalition lanciata nel 2017) si può ben sperare che l’obiettivo SDG 8 fissato dalle Nazioni Unite per “realizzare occupazione completa e produttiva, nonché lavoro dignitoso per tutti, con pari retribuzioni per un lavoro di pari valore” sia effettivamente realizzabile entro il 2030.

 

*Sbilanciamoci.info

 

 

 

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